“IL TEMPO SEMPRE BELLO FA IL DESERTO”

Autore: Colpani Simona

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Un’amica psicologa un giorno mi disse che i ciclamini a lei piacciono molto perché sono un classico esempio di pianta “resiliente [1]“: “Te li dimentichi lì, gli nevica sopra, dimentichi di bagnarli e sembra sia tutto morto, non ci sia più nulla e quando meno te lo aspetti rispuntano i fiori e ritorna anche più bello di prima”. Resilienza è, in psicologia, la capacità di far fronte alle difficoltà della vita, capacità che si sviluppa nell’affrontare fatiche, difficoltà e dolori quotidiani.
Ma chi di noi ha voglia di fare fatica? Abbiamo la casa piena di utensili, macchine, ausili inventati dall’uomo proprio per rendersi la vita meno difficile. Nessuno di noi sceglierebbe, né per sé né per i propri cari, la sofferenza. Proprio l’evitare le sofferenze è ed è stata la molla per la ricerca e per tante invenzioni e scoperte.
Eppure il dolore e la sofferenza fanno parte della vita. Un epitaffio greco recita

“patii, capii”, ovvero: la sofferenza è ciò che mi ha aiutato a capire; o meglio, mi verrebbe da aggiungere, ha aiutato a capire coloro che sono stati in grado di affrontare e vivere il dolore, di guardarlo.


Un detto arabo recita:

“Il tempo sempre bello fa il deserto”,

e nel deserto si sta decisamente peggio che non in un luogo ove piove, magari anche spesso.
Gli atleti raccontano dell’importanza che ha saper reggere una fatica in vista di un obiettivo finale, sviluppando contestualmente la capacità di attesa, e questo vale nello sport come nella vita. 
Non servono situazioni particolarmente traumatiche per vivere disagio, sofferenza: basta un no, e forse è per questo che a volte ci risulta così difficile dirlo, o farlo vivere, ai nostri figli. Sappiamo tutti che ricevere un no non è carino: “Potrei usufruire dei servizi?” “No, a meno che non ci sia una consumazione”; “non ho capito come si fa, mi aiuteresti?” “no, devi fare da solo”; “non riesco a sollevare questo carico pesante, mi aiuteresti?”, “No, la fatica ti farà diventare più forte”; “guarirà?”, “no”. 
Di fronte ad un “no” raramente capita di sentirsi felici. L’esperienza che si prova è quella del dolore. Ad ognuno di noi il termine dolore può ricordare esperienze diverse, intensità diverse. Non illudiamoci di poter presupporre chi ha provato le esperienze di dolore più intense. Ricordiamoci che anche il tempo sempre bello fa il deserto, e nel deserto non si sta bene. Ci sono dolori riconosciuti, per i quali ci è concesso e legittimato “il pianto”, e dolori di fronte ai quali gli altri giudicano ciò per cui ci addoloriamo come non degno di pianti, o ancora peggio situazioni per le quali è “sbagliato piangereC. Anzi! A volte piangeremmo per eventi per i quali tutti attorno ci dicono che dobbiamo essere felici e vogliono farci festa. Può capitare al bimbo a cui nasce un fratellino, o all’adulto che va in pensione, alla mamma che ha appena partorito, o a mille altre situazioni che neppure immaginiamo. Si può giungere al gesto estremo del suicidio sia di fronte ad un evento luttuoso la cui gravità è riconosciuta da tutti, sia per tanti, piccoli, apparentemente insignificanti dolori di chi, agli occhi degli altri, ha tutto.
Perché ci sono “dolori che temprano” e “dolori che distruggono”? Ci sono tre ordini di fattori che intervengono.

Il primo è legato all’allenamento e all’esperienza, il vivere alcuni “no” scoprendo che poi tutto passa e si sistema: il no per troppa televisione che mi fa scoprire un gioco a cui non avevo pensato; il no per troppe caramelle e mi fa scoprire che il cibo cucinato dalla mamma è proprio buono; il no legato all’acquisto di un gioco poco utile che mi fa scoprire un gioco che avevo dimenticato in fondo al cassetto.

Il secondo è il modo. Se, di fronte al dolore, delle persone che mi saranno state vicine e mi avranno insegnato ad affrontarlo, probabilmente in futuro lo potrò fare anche da solo. Se di fronte alle prime esperienze di dolore dovrò cavarmela da solo, il rischio è che il dolore si trasformi in rabbia. Dietro alla rabbia c’è sempre il dolore, un dolore vissuto da soli, un dolore che, oltre a far male, fa paura.

Il terzo è legato al significato che acquista in relazione a tutto il resto. Noi siamo solo perché siamo in relazione. Siamo in relazione con il tempo che abbiamo vissuto, con il nostro passato così come con i desideri per il nostro futuro, e siamo in relazione con le altre persone che con noi hanno vissuto le giornate passate e che con noi vivono l’oggi. Siamo in relazione con chi c’è come con chi non c’è, con coloro per i quali siamo stati come per coloro per i quali siamo mancati.

In altre parole: noi possiamo dire di essere figli solo se abbiamo avuto dei genitori; possiamo dire di essere madri, padri solo se abbiamo cresciuto dei figli. Possiamo essere alunni bravi o scadenti a secondo del gruppo classe nel quale ci troviamo: in una classe in cui tutti prendono 10, se io prendo 7 sono un po’ scadente. In una classe in cui tutti prendono 5 e 6, se io prendo 7 sono il più bravo; e così via.
Le esperienze che viviamo traggono il loro senso, la loro potenza, il loro significato da quello che è accaduto prima, da quello che sta attorno oggi, da quello che desideriamo per domani. 
C’è una patologia che porta le persone a non sentire il dolore. Queste persone, non percependo il dolore, non si proteggono: riportano fratture, ustioni, senza avvertirle. La percezione del dolore, emotivo e fisico, è fondamentale per la sopravvivenza, tanto quanto la capacità di reagire di fronte al dolore.
Come si reagisce al dolore? Dandogli il giusto nome, riconoscendolo, sentendolo riconosciuto e andando oltre. Se è riconosciuto, le ferite vengono lenite dalle attenzioni d’amore. Se non è riconosciuto ci si arrabbia, e la rabbia si manifesta con azioni aggressive: aggressività di difesa. La rabbia della gelosia, per fare un esempio, è un sentimento legittimo, naturale. 
Sono le persone con cui sono in relazione che mi possono aiutare a far fronte all’esperienza del dolore e a trasformarla. Il tempo da solo non cura. A volte il tempo acuisce il dolore, e con esso la rabbia. Ci sono situazioni di dolore non riconosciute che lievitano con il tempo, fino a scoppiare, come pentole a pressione, a distanza di molto tempo dall’evento che lo ha innestato.
Noi siamo perché siamo in relazione, dicevo più sopra. Lo stesso vale per le nostre emozioni: la lettura di ciò che ci accade, le emozioni che gli eventi ci provocheranno, saranno in relazione con gli altri eventi accaduti. Se nella mia vita mi sarò confrontato con i dolori del quotidiano, dovessero giungere dolori anche improvvisi e incomprensibili, riuscirò e farvi fronte. Se nella mia vita non avrò scoperto che posso far fronte al dolore, che ho gli strumenti e le abilità per farvi fronte, non saprò come affrontare gli imprevisti, come lottare per raggiungere un obiettivo.
Nessuno vuole il dolore, ma è solo incontrandolo e conoscendolo, sostenuti da chi ci accompagna, che possiamo scoprire che possiamo farvi fronte.

Articolo apparso sul blog di Mario Zattin: Musicoterapia Umanistica Fenomenologica

Note

[1Resilienza è un termine derivato dalla scienza dei materiali e indica la proprietà che alcuni materiali hanno di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione. In psicologia connota proprio la capacità delle persone di far fronte agli eventi stressanti o traumatici e di riorganizzare in maniera positiva la propria vita dinanzi alle difficoltà.