LA PAROLA

Autore: Colpani Simona

Quello che io dico e quello che tu senti non sono sempre la stessa cosa. Anonimo
È solo nell’essere corpo che può esistere la parola, e la Parola.

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Imparare a parlare: una delle più grandi conquiste per ogni bambino come per il genere umano. 
Imparare a dare un nome agli oggetti ed alle persone che ci circondano è un’abilità che cambia completamente il modo di essere al mondo del bambino e delle persone attorno a lui.
Saper parlare significa saper dare un nome. Viene dopo l’aver ricevuto un nome e l’aver imparato a rispondere al proprio nome. Come sempre, il bambino impara per imitazione. 
È abituato ad ascoltare ancor prima di nascere, e questa maturata abilità gli consente di prestare attenzione ai suoni che sente attorno a sé dall’istante in cui nasce. Chissà cosa coglie delle tante parole dette attorno a lui dai genitori, dai nonni, dalla gente che passa, dalla radio, … 
Il suono della voce [1] (anche se sarebbe più appropriato parlare di canto!) accompagna i primi giochi infantili: il bambino gorgheggia e l’adulto risponde ai vocalizzi. Di solito, nel bambino molto piccolo, non c’è una reazione diversa nel sentire pronunciare il proprio nome piuttosto che altri vezzeggiativi. Il bambino ascolta tutto. Ascolta quelli che, da professionisti, chiamiamo “i linguaggi”: i toni di voce, la mimica (che prepara all’arte espressiva), i colori ed i coloriti, il tono corporeo, … Non sa dare un nome a tutto ciò. Gli arriva, ed arriva tutto insieme: quella voce ha quel viso ed ha quei colori, ha quell’odore, ha quel tono, accompagnato da quei gesti [2], ….
Crescendo e vivendo esperienze diverse scopre che ci sono parole pronunciate anche da altri, con altri toni, con altri odori, con altra enfasi, ma tutte dicono della stessa cosa. E “la cosa” ad un tratto ha un nome. Per poter imparare a pronunciare correttamente il nome giusto con il quale chiamare “quella cosa”, il bambino ha bisogno di avere strumenti e occasioni. Per gli strumenti [3], deve aver imparato ad usare bene la lingua, cosa che fa imparando a mangiare cibi solidi, masticando [4], ma anche leccando un gelato e scoprendo che se preme troppo casca in terra, o che se la linguetta resta fissa in un punto fa il buco ed il gelato casca giù di nuovo!… Sono tanti i giochi che i bambini fanno con la bocca e che funzionano da vero e proprio allenamento! La cosa importante è che i giochi siano tanti, vari, non uno solo: per questo vanno bene le pernacchie con le labbra, le boccacce, tirare fuori la lingua per leccarsi “i baffi” o ripulirsi la bocca. Anche il fare le bolle [5] con la saliva – per quanto ci faccia un po’ ribrezzo – richiede un’abilità notevole!
Poi serve l’occasione: serve qualcuno che abbia tempo (che dia/doni il suo tempo) per stare ad ascoltare un bambino che cerca di parlare, senza anticiparlo, senza parlare al suo posto, senza mettergli in bocca le parole che vorremmo sentirgli dire. Capita – perché traiamo un piacere da questo ascolto – di sentire adulti che rivolgendosi ad un bambino gli dicono: “Racconta a ….. che oggi sei andato al parco.” E poi: “Digli chi hai incontrato. C’era il Pa… Pao….” Al bambino non resta scelta: non può che dire che ha incontrato Paolo. Magari, oltre a Paolo, ha incontrato anche una formica che perseguiva tenacemente la sua strada nonostante i suoi ripetuti tentativi di farle cambiare strada con un bastoncino …. Accidenti, lui con la formica non è riuscito a fare ciò che l’adulto è riuscito a fare con lui! D’altra parte l’adulto risponde a due bisogni differenti: il primo è evitare di trovarsi in una situazione in cui il bambino racconta una serie di cose che poi chi ascolta non riesce a capire (perché è un’esperienza frustrante per chi ascolta e per chi vuole essere capito; a meno che non la si prenda scherzando e ci si sorrida sopra…); il secondo è perché inconsapevolmente sappiamo che è difficile, per chi è alle prime armi, pensare un contenuto ed al tempo stesso trovare le parole che lo raccontano e pensare anche a come esse vanno articolate per pronunciarle… per consentire al bambino di poter “fare esercizio” [6]ovviando a questa difficoltà la tradizione popolare ci ha regalato le filastrocche.
La parola serve per comunicare. Un bambino con una sola parola dice una frase intera: “Acqua”, e noi abbiamo capito di cosa ha bisogno. Non sempre con una sola parola il bambino riesce a dire ciò che gli serve, ma non credo che il vincolo sia legato alla mancanza di struttura sintattica o semantica, quanto al fatto che non sa con che parola chiamare quella cosa che gli serve o che vuole. Questo perché, una volta imparato a dire, occorre ampliare i termini a nostra disposizione per dire… ed ampliare i significati da dire
In questo non è possibile fare una distinzione tra adulti e bambini. Quante volte ci siamo trovati in difficoltà perché non riuscivamo a trovare le parole giuste per dire? Quante volte non abbiamo saputo dare un nome a ciò che vedevamo accadere? Quante volte non abbiamo visto ciò che accadeva sotto i nostri, piacevole o spiacevole, perché non avevamo nessuna parola che ce ne raccontasse l’esistenza? La poesia ci insegna che è meglio usare poche righe, poche parole, per dire ciò che è indicibile. Quanto è difficile parlare di emozioni? Quanto è difficile parlare di cambiamenti che ci attraversano, come ad esempio per gli adolescenti, e per i genitori degli adolescenti? Ci sono parole che ci aiutano a spiegare per poter capire meglio? Quando le troviamo, o quando le riconosciamo nelle parole dette da altri, ci pare che tutto sia ad un tratto più chiaro. 
Chi ha trovato le parole che riescono a raccontare una verità, può usarle per sostenere l’altro, ma può anche trasformarle in spada con la quale ferire. Lo possiamo fare come genitori nei confronti di un figlio. Un “Non capisci niente” di fronte ad un figlio che ha fatto un errore, sia esso di comportamento nei confronti di un fratello o di un coetaneo o di un compito…, con quel “niente” racconta ben altro che “Ho visto che non hai capito il peso del tuo gesto, la gravità della tua impulsività, ….”. Anche un insegnante che rivolga queste parole ad un alunno lo schiaccia, a meno che i bambini non abbiano imparato a farci …”il callo”. Capita infatti che, a forza di sentirselo dire, si siano costruiti una sorta di corazza sulla quale le parole possono scivolare perché i bambini/ragazzi non credono più nel ruolo di sostegno dell’adulto. 
Sono solo parole, ma possono costruire ponti o muri. Una sola parola detta, o non detta, a volte può cambiare radicalmente una situazione: un saluto, un grazie, uno “scusami”.
Le parole sono potenti. I latini dicevano “numen nomen”, ovvero il potere delle parole [7]. Ma non sono solo potenti. Esse sono un luogo misterioso: riescono a dire di più ed altro di quello che dicono. Possono venire fraintese, posso risollevare gli animi, posso far crescere la speranza o gettare nel dolore, senza che il motivo della gioia o del dolore venga nominato. 
Portano con sé altro, altre storie, altri significati, altri racconti…

Note

[1Emettere un suono: è la prima cosa che fa un bambino quando nasce. Urla, o piange. La voce inizia ad esistere, e con essa noi possiamo dare un nome alla persona che viene riconosciuta esistere. La voce esiste perché esiste un corpo. Senza corpo non c’è voce, senza voce non c’è parola. Senza corpo non c’è Parola.

[2Un po’ come ha scritto C. Sini in “Arti dinamiche, filosofia e pedagogia”: “Ricordate l’esempio del contadino analfabeta che va a far legna nel bosco studiato da Luria: richiesto di definire l’albero, la scure, la sega, risponde, in modo per noi stupefacente ed incomprensibile, che sono la stessa cosa; infatti, dice, la scure abbatte l’albero, la sega lo divide in pezzi ed ecco pronta la legna da mettere nel camino. Ignaro di scrittura alfabetica e quindi di abiti linguistici definitori e di “oggetti in sé” corrispondenti alle definizioni, il contadino vive ancora intensamente ed esclusivamente l’unità di senso dell’azione. Andare a far legna nel bosco, accendere il camino è vissuto pertanto come un gesto unico, un’unica azione che si definisce nel suo complesso e per il suo fine.”.

[3Do per scontato una serie di strumenti che mediamente tutti i bambini possiedono, quali ad esempio un buon udito, l’assenza di danni cerebrali, ecc. Do per scontate tante ricchezze….

[4I movimenti richiesti dalla lingua per succhiare un biberon sono di un certo tipo, quelli per prendere la pappa con il cucchiaio già cambiano (ed è il motivo per cui i bambini piccoli sputacchiano e perdono parte della pappa dalla bocca quando li imbocchiamo), masticare poi chiede alla lingua un moto molto più coordinato: non basta deglutire, occorre anche mandare il cibo lateralmente sotto i denti e quando i denti sono aperti perché, una volta richiusi, possano sminuzzarlo. Quindi il cibo va fatto “girare” perché sotto ai denti finisca la parte non ancora sminuzzata. Lo svezzamento è un momento importantissimo non solo in relazione al cibo!

[5Tra l’altro l’origine etimologica di bambino è comune a balbettio, a bolle…

[6Il fare esercizio negli ultimi tempi si è trovato un po’ adombrato dal bisogno preminente che il bambino capisca. Ovviamente è importante spiegare, raccontare, far capire, ma tutti noi a volte abbiamo prima capito e poi, a forza di fare e rifare, imparato a fare meglio. Altre volte abbiamo fatto tante volte, e dopo l’aver fatto tante volte, ad un tratto ci si è illuminata la lampadina… e abbiamo capito! Tant’è vero che c’è anche il detto bergamasco che dice che “ha capito dopo trenta fette che era polenta”. L’esercizio è fondamentale per prendere dimestichezza e padronanza! Ma i bambini questo lo sanno se non li distogliamo…

[7“Lo sapevano i Padri Latini e lo dicevano per significare che ogni nome evoca, annuncia la Forza che lo anima. E non si riferivano solo al nome proprio, ma conoscevano la potenza della parola in assoluto. Lo scrivere, il lasciare il segno della parola, era considerato dagli Antichi un’azione dal potere tanto evocativo da non poter essere accessibile senza una corretta iniziazione spirituale. […] Chi abbia compreso una cosa, quegli potrà altresì parlarla” In Il nome segreto di Roma. Metafisica della romanità. Giandomenico Casalino.