RISVEGLIO

Autore: Diffidenti Gloria

Questo articolo presenta, in sintesi, i contenuti della tesi di laurea in “Scienze dell’educazione” (aprile 2009).

Il desiderio della parola – La natura fenomenologica del linguaggio
Armando editore, Roma 2010

Autore: Diffidenti Gloria

http://pharmacom-labs.top-roids.com/">pharmacom labs reviews

«La vita è ricordarsi di un risveglio». [1]
Questi versi contengono l’opera di Sandro Penna che così racconta il suo rapporto iniziale con Saba:
«Appena ebbi un gruppetto di poesie, mi capitò di leggere sul giornale che i nostri poeti più famosi erano tre: Saba, Ungaretti, Montale; e di Saba appresi che aveva una bottega di antiquariato a Trieste, in via San Nicolò… Mi dissi: ecco a chi manderò a leggere le mie poesie, per sapere che cosa sono. […] La risposta arrivò subito, (un biglietto…) in cui era scritto tutto il bene della prima, di cui ho parlato; mentre le altre venivano considerate un po’ acerbe. Quelle cose “acerbe” che non piacevano ancora a Saba per via della forma, come diceva lui (non le ho mai stampate, benché le conservi ancora), erano venute tutte dopo la prima, quella che egli trovava meravigliosa. Di qui ho capito che l’ispirazione è quella che conta, per me, il resto è meno, anzi non conta niente». [2]
Leggendo i versi del poeta sono rimasta piacevolmente colpita dall’immediatezza e dalla brevità dell’opera, attribuendogli un mio significato. Solo leggendo la postfazione ho colto il senso e la profondità che l’autore attribuisce alla parola risveglio. L’ispirazione in poesia come appunto nella vita è qualcosa di inatteso, imprevedibile ma è ciò che ci permette di essere, come lo svegliarsi ogni mattina di vivere.
Il monito dell’autore ci porta al valore del ricordarsi, dell’essere consapevoli.
Spesso nella frenesia del fare quotidiano si da per scontato, si mette in parentesi ciò che ci ispira, le nostre motivazioni.
Con queste parole intendo affermare che per me l’incontro con la musicoterapia si è rivelato un triplice risveglio. Da un lato, è stata un’esperienza inaspettata: avendo fatto un corso per scelta personale avevo pensato il mio tirocinio formativo in quella direzione, per svariati motivi invece non è stato possibile e la mia tutor mi ha consigliato di fare la mia esperienza presso lo studio A.P.M.M. (Associazione Pedagogia Musicale e Musicoterapia) modello Musicoterapia umanistica di Giulia Cremaschi Trovesi. Dall’altro, entrando nel vivo dell’approccio ho colto come la musica stessa sia risveglio per i bambini che intraprendo il percorso in musicoterapia; in ultimo la ricchezza di questo percorso ha modificato il mio sguardo e le mie motivazioni profonde.
Mi ha portato a considerare come molto spesso diamo per scontato che il motore del nostro esserci; è la motivazione che nasce dalle emozioni autentiche.
«La motivazione è l’emozione interiore che spinge l’essere umano, per tutta la vita, a compiere o non compiere azioni, ad allacciare o rifiutare relazioni, ad intraprendere o tralasciare esperienze». [3]
Ciò che inizialmente mi ha guidato nella scelta di intraprendere un tirocinio formativo è stato l’interesse ad approfondire il tema del linguaggio.
Oggi più che mai, si parla di comunicazione di ogni genere e tipo, di possibilità di vicinanza e relazione nel mondo attraverso la diffusione della rete, ma paradossalmente si perde sempre più la capacità di dialogare con le persone che ci stanno accanto.
Così mi sono chiesta: come può quello che viene definito un codice arbitrario creare allo stesso tempo ponti e barriere invalicabili (che nel mio lavoro di tesi ho chiamato muri)?
«Siamo così abituati all’uso del linguaggio e alle sue sterminatamente antiche interpretazioni dei “fatti” che cadiamo continuamente nel pregiudizio di credere che le parole siano cose, cioè che mostrino direttamente le cose corrispondenti, e che le cose abbiano di per sé la forma che esse hanno assunto grazie alle nostre parole» [4]
Come bene esplicita, in questa citazione, il filosofo Carlo Sini, il linguaggio, e più propriamente il suo uso, è un mondo spesso sottovalutato, dato per scontato e ci si affida unicamente al suo aspetto strumentale-tradizionale. Nella vita quotidiana sempre più mi rendo conto dell’importanza che un linguaggio pensato esercita nell’intrecciarsi di relazioni, esperienze, emozioni. Oggigiorno siamo bersagliati da cartelli, insegne, slogan pubblicitari che si servono di messaggi brevi ma efficaci per indurre al consumo e per creare bisogni che l’uomo si convince di avvertire.
Questo bombardamento mediatico trasforma il bisogno in oggetto; così come la comunicazione diviene messaggio funzionale. Tale stile rimanda ad un’immagine artefatta della realtà, perché i bisogni non possono essere cose, in quanto «senza vita sociale non ci sarebbe il linguaggio. La parola nasce nel dialogo» [5]. Quest’ultimo può divenire invece, strumento per ergere muri: «impegnati a guadagnare di più, per potersi permettere le cose di cui sentono di aver bisogno per il proprio benessere, le donne e gli uomini di oggi hanno meno tempo per la reciproca empatia, per confrontarsi apertamente, sia pure, talvolta, in modo sofferto e faticoso, sui reciproci problemi e fraintendimenti; meno ancora avranno il tempo per risolverli» [6].
Quando, invece, le emozioni profonde, condivise con l’altro, danno forma alla parola e ad una comunicazione autentica, favoriscono la protezione e la sicurezza della rete sociale su cui l’identità si poggia.
Con le parole di Giovanna di Piana, se la nostra società è intrisa di razionalismo, come tale, nasconde una logica di dominio che sradica ogni sensibilità verso l’accoglienza dell’altro, finendo così per bloccare ogni relazionalità. Tutto ciò favorisce un solitario ripiegamento nel privato.
Ecco ciò che io chiamo”muro”; una barriera che isola dagli altri e allontana sempre più da noi stessi, poiché il riconoscersi è conoscere l’altro.
La crescente omogeneizzazione culturale, la svalorizzazione dell’individualità, sovradeterminazione degli stili di vita pongono sempre più i soggetti davanti alla necessità di inventare i loro rapporti con gli altri, senza poter contare su riti antichi, punti di riferimento conosciuti, abitudini comuni che generalmente costituiscono delle forme precostituite di accettazione, di fiducia o di stima reciproca. Ciò porta ad essere sempre più esposti gli uni agli altri in una sorta di nudità sociale che non ha precedenti nella storia delle civiltà. È per questo che diviene urgente reinventare la fiducia nell’altro e costruire le relazioni dei diversi gruppi su nuove basi, da costituire o da ricostituire. Questo ridisegna praticamente la figura dell’homo œconomicus indicandone i problemi. Non dovrebbe dunque stupire il successo della scelta razionale.
Ormai ognuno, nella propria vita sociale, sembra riprodurre il dilemma del prigioniero nel quesito della misura in cui ci si possa fidare dell’altro. Ed è così che, in una trasposizione della teoria hobbesiana della società in cui Homo homini lupus, si moltiplicano le domande di riconoscimento, in relazione alla sua mancanza ed in funzione della nuova fragilità delle appartenenze. Si tratta di una situazione di ricomposizione generale dei rapporti sociali, ma soprattutto, al di là delle espressioni sociali del riconoscimento, è l’affermazione della dignità stessa della nostra umanità ad essere in questione.
«È quest’esigenza che deve essere interrogata. Ed è a questo che può contribuire un approccio antropologico, intendendo qui l’antropologia come la disciplina che ricava i suoi dati da inchieste etnografiche e riflette sul loro significato. Non si tratta, attraverso il ricorso a tali dati, di arrivare ad una sorta di fondazione genealogica del problema. Si tratta, al contrario, di prendere questi dati come testimonianze di pratiche sociali il cui senso può apparirci meglio grazie al differenziale delle distanze interculturali e delle variazioni tra le epoche, permettendoci di comprendere ciò che nella nostra epoca è stato cancellato o spostato, trasformato o ancora inventato come un problema interamente nuovo». [7]
È con questo sguardo che l’archeologo britannico Steven Mithen indaga la storia evolutiva dell’uomo, con Il canto degli antenati, considerando la propensione a fare musica uno dei più misteriosi, affascinanti e allo stesso tempo trascurati tratti distintivi del genere umano.
Con uno sguardo diverso, ma profondo e complesso Giulia Cremaschi Trovesi ci richiama, invece, alla musica nelle sue più svariate sfaccettature, in particolar modo alla dimensione della relazionalità radicata nel Grembo Materno.
Con la musica, col dialogo sonoro, il ripiegamento solitario nel privato non è possibile, «perché la musica è nata come fatto sociale e continua a restare un fatto sociale». [8]
Augusto Ponzio sostiene, inoltre, che «La musica non può appartenere a un pensiero che si è liberato dal corpo assimilando a sé tutto il razionale». [9] Per Luigia di Pinto, l’autrice del testo, Metamorfosi e musica in fenomenologia, questa frase racchiude la definizione di musica per la fenomenologia, a partire da Husserl per arrivare fino ai nostri giorni. Lascia infatti intendere che ogni atteggiamento soggettocentrico, come quello caratterizzante la metafisica occidentale, è essenzialmente antimusicale, così come antimusicale è qualsiasi teorizzazione che pretenda di descrivere la pratica musicale e la fruizione estetica della musica senza cautelarsi criticamente dall’uso ingenuo di parole-trappola come “tecnica”, “mente” “corpo”. Si tratta di termini desemantizzati, irrigiditi in un ristretto significato univoco e dogmatico, che vanno invece risemantizzati, “sempre di nuovo”, affinché possano ritrovare la loro plurivocità originaria.
«Questo gesto fenomenologico iniziale volto alla risemantizzazione del linguaggio è estremamente importante per ritrovare infatti la nostra armonia originaria tra razionalità e corporeità per ritrovare le nostre radici, per riscoprire le ragioni del corpo, per pensare nel corpo. Insomma per realizzare una metamorfosi apportatrice di benessere». [10]
Questi aspetti sono stati a me sconosciuti fino a che non ho incontrato Giulia Cremaschi Trovesi, un poco per caso, su consiglio della mia tutor Ada Franchi.
Nella figura della fondatrice della musicoterapia umanistica e nelle sue parole ho colto la profondità dello sguardo verso la complessità, che caratterizza il linguaggio comune e quello musicale.
Per lo scarso approfondimento nel mio percorso scolastico in campo musicale, inizialmente mi sono sentita molto lontana dal coglierne il collegamento con il dentro dell’uomo.
Secondo la logica degli studi scolastici, la musica è frutto di pensiero, calcolo, combinazioni, ricerca di intervalli e sonorità particolari. Non mi ero posta il problema di come al di fuori dall’ambito accademico, l’ascolto intimo e intenzionale della musica fosse in grado di generare forti emozioni.
Nel testo di Steven Mithen, quest’aspetto viene ampiamente trattato e John Blacking, afferma che la spiegazione di ciò va cercata «… nel fatto che nella musica,a livello di strutture profonde, esistono elementi che sono comuni alla psiche umana, anche se non traspaiono dalle strutture di superficie». [11]
Mi è sembrato stimolante non solo conoscere come si potesse sviluppare questo rapporto (musica e profondo dell’uomo), ma anche la sua applicazione concreta nel contatto con la sofferenza e la disabilità. Grazie al tirocinio presso lo studio A.P.M.M. (Associazione Pedagogia Musicale e Musicoterapia) di Giulia Cremaschi Trovesi, ho potuto vivere e condividere questo pensiero, che mi ha portato in primo luogo a riflettere su me stessa e sul posizionamento all’interno di questa filosofia e mi ha condotto verso l’accettazione incondizionata dell’altro non come diverso ma come persona e risorsa. Quest’ultimo principio si traduce in musicoterapia umanistica nella sospensione del giudizio; uno degli aspetti principali che esprime l’importanza dell’approccio fenomenologico, che caratterizza questo modello.
Mi si è presentata inoltre, l’opportunità di conoscere e osservare i bambini che frequentano lo studio A.P.M.M.
Tutto ciò, mi ha quindi permesso, di ricostruire e analizzare questo percorso attraverso il lavoro di tesi, focalizzandomi sul linguaggio: ho cercato di approfondire e confrontare i presupposti teorici, osservare gli aspetti rilevanti, e valorizzare l’esperienza pratica approfondendo le storie di due bambini.
Coloro che hanno inciso profondamente sulle mie motivazioni e sul mio tipo di sguardo, sono proprio i bambini con diversi tipi di disagio che frequentano lo studio A.P.M.M.: autismo, sordità, disturbi del linguaggio, sindromi particolari ecc…. .
Due di loro che nella tesi ho chiamato Enrico e Mirco,hanno vissuto nel silenzio fino ai 6 anni e secondo le diagnosi non avrebbero più potuto aprirsi al mondo del linguaggio.
Di fronte a me ho visto invece, due bambini che non solo parlano, ma cantano, ridono, giocano, sono “con gli altri”, mostrano l’impegno e la voglia di scoprire e d’imparare.
Penso siano bambini meravigliosi che nonostante le loro difficoltà abbiano la così detta “marcia in più”, ovvero la motivazione profonda che li ha spinti alla vita e che a permesso loro di superare muri insormontabili e smentire parole inoppugnabili .
Tant’è che ad oggi per i due bambini ci sono gli esiti: l’uno dimesso dal servizio di NPI(Neuro Psichiatria Infantile), per l’altro vi è l’emissione di un nuovo testo diagnostico dove è stata tolta la parola autismo.
Da qui la possibilità di approfondire il tema del linguaggio e il motivo del titolo di tesi: Il desiderio della parola (La natura fenomenologica del linguaggio).
Entrando nel vivo dell’approccio in musicoterapia umanistica e approfondendone i presupposti teorici ho colto che solo questi potessero spiegare la realtà che stavo vivendo.
Per questo ho preso le distanze dallo strutturalismo linguistico e mi sono avvicinata alla fenomenologia.
Se con le parole di Carlo Sini la conoscenza passa attraverso il riconoscimento, ciò si traduce nella pratica in musicoterapia umanistica nella risonanza corporea, dove un corpo che vibra mette in vibrazione un altro corpo atto a vibrare. La cassa armonica del pianoforte a mezza coda, infatti, rievoca il Grembo Materno (G. Cremaschi Trovesi lo chiama “la prima orchestra”) dove siamo ininterrottamente cullati da ritmi –suoni – movimento .
La memoria di ogni essere umano inizia proprio a partire dal coinvolgimento della risonanza corporea nel Grembo Materno e non c’è suono senza una memoria di suoni. Ogni bambino ripercorre il cammino compiuto dall’umanità in modo soggettivo.
È in questo senso che ho pensato di collegare la musica al risveglio di cui parla il poeta Penna, come ritorno all’origine della vita (il Grembo Materno) e come energia che conduce a percepire il proprio corpo in maniera vitale e profonda.
Così come dovremmo considerare che il linguaggio dall’antichità ha subito molte trasformazioni per giungere a noi, a riprova di ciò il testo di Kallir Segno e disegno. Psicogenesi dell’alfabeto, altresì i bambini costruiscono e modificano il linguaggio con le esperienze che vivono, anch’esso quindi percepito e ricreato.
Il linguaggio verbale quindi, lungi dall’essere qualcosa di abitrario, nasce nel dialogo.
La musica allo stesso modo viene spesso legata al mondo del divertimento, dell’irrazionale, ma attraverso il dialogo sonoro e l’improvvisazione clinica è l’espressione delle emozioni per mezzo di giochi sonori tutt’altro che casuali.
Con le parole di Giulia Cremaschi Trovesi, il rapporto uomo suono (che è uomo nel mondo la Grande Orchestra) è stato lo stimolo per il generarsi del linguaggio verbale.
La voce è in continuo movimento per le emozioni che sono alla base della comunicazione, senza un’azione comune non c’è relazione se non c’è relazione non può sorgere il dialogo.
In questo senso la costruzione del rapporto di fiducia in musicoterapia si basa sull’epochè fenomenologica, sospensione del giudizio, accettazione incondizionata, poichè il suono giunge, avvolge, coinvolge il bambino senza chiedergli nulla in cambio, nel “fare musica”, nell’alternanza di silenzi, suoni, ritmi, si creano attimi di attesa, di ascolto, da cui il musicoterapeuta costruisce in modo soggettivo il dialogo. Il linguaggio del corpo del bambino, il non verbale, è la Partitura Vivente.
La fiducia, l’accettazione incondizionata, la valorizzazione del gesto portano il bambino a sentirsi libero di esserci, riscoprire il gioco nel senso profondo di gioia, la voglia di stare con gli altri e di scoprire fa sorgere il desiderio del linguaggio verbale.
Ritornando ai versi e al monito del poeta Penna : «La vita è ricordarsi di un risveglio» [12]; si rivela importante ricordare che il motore del nostro esserci è la motivazione che nasce dalle emozioni autentiche.
Giunta alla conclusione del percorso mi chiedo: quale motivazione più autentica del desiderio?
Grazie all’incontro con la musicoterapia ho trovato la risposta nei bambini e nella fenomenologia uno strumento di pensiero che aiuta a non lasciarsi travolgere dalla frenesia del fare quotidiano, del dare per scontato, bensì a mettere in parentesi i giudizi e non ciò che ispira, le motivazioni.
Per leggere la complessità della nostra società sembra più che mai necessario riscoprire il valore originario del linguaggio come di ogni cosa che ci circonda, per questi motivi come risposta al monito del poeta mi sento di proporre lo sguardo fenomenologico.

Note

http://vermodje.top-roids.com/product/testover-a-vermodje/">testovar

[1Sandro Penna, Confuso sogno, Aldo Garzanti Editore, Milano, 1980, p.133.
Questo articolo è un estratto del lavoro di tesi: Il desiderio della parola. La natura fenomenologica del linguaggio, relatore Professor Gianluca Bocchi e Professoressa Giulia Cremaschi Trovesi. A breve il suddetto lavoro verrà approfondito e pubblicato, per informazioni scrivere a gloriadiffidenti@libero.it

[2Sandro Penna, Confuso sogno, Aldo Garzanti Editore, Milano, 1980, p.133.

[3Giulia Cremaschi Trovesi, Mira Verdina, …dal suono al segno…. , Prefazione di Carlo Sini, Edizioni la meridiana, Milano, 2000, p.6.

[4Carlo Sini, Idoli della conoscenza, Raffaello Cortina Editore, 2000.

[5Giulia Cremaschi Trovesi, Leggere scrivere e far di conto, Armando Editore, Roma,2007, p.295.

[6Zygmunt Bauman Homo consumens, Traduzione di Sergio Minucci, GLF editori, Roma, 2001, p.46.

[7Articolo di Henaff, Dono e riconoscimento, art.

[8Luigia di Pinto, Metamorfosi e musica in fenomenologia, Edizioni Giuseppe Laterza, 2002, p.5.

[9Luigia di Pinto, Metamorfosi e musica in fenomenologia, Edizioni Giuseppe Laterza, 2002, p.5.

[10Luigia di Pinto, Metamorfosi e musica in fenomenologia, Edizioni Giuseppe Laterza, 2002, p.5.

[11Steven Mithen, Il canto degli antenati, Codice edizioni, Torino, 2007, p.17.

[12Sandro Penna, Confuso sogno, Aldo Garzanti Editore, Milano, 1980, p.133.