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Musicoterapia Umanistica APMM Corso Quadriennale di Musicoterapia Umanistica

Nei due anni trascorsi, innumerevoli volte, ora un corsista, ora un altro, ponevano domande a Giulia. La risposta è diventata un ritornello da intonare: “Al terzo anno troverete le risposte da soli!

I primi due anni di corso sono stati dedicati allo studio, formazione, preparazione vocale e strumentale  che caratterizza la pedagogia musicale APMM.

Nel secondo anno sono stati inviati docenti dall’estero e professionisti di discipline specialistiche.

Gli esami/verifiche effettuati alla fine del primo e del secondo anno, sono stati occasione di incontro, sperimentazione, sorpresasoddisf nel constatare i progressi compiuti da tutti i corsisti. Le verifiche sulle abilità nell’improvvisare, dirigere, comporre con le voci, con il proprio strumento, al pianoforte,  percussioni,  chitarra e flauti dolci soprani e contralti, sono state un feedback positivo per tutti i corsisti. Gli esami hanno richiesto l’impegno di ogni corsista in rapporto al gruppo dei compagni.

 

L’aver realizzato un percorso educativo-pedagogico-creativo fondato sulle esperienze e sulle conoscenze ha spianato la strada per entrare nella profondità dell’epistemologia della musica. Il modo di procedere maieutico ha favorito il dialogo, la reciprocità fra docenti / discenti. E’ doveroso rimarcare che i discenti, ossia i corsisti, sono prof. di musica.

 

Il terzo anno vedrà coinvolti vari musicoterapeuti iscritti alla F.I.M. certificati in base alla Norma UNI 11592. A loro saranno richieste esposizioni sulle loro attività, sulle competenze conseguite nel rapportarsi in sedi di lavoro diverse e sul proprio territorio. Lo studio epistemologico sulla musica, origine di Arti e Linguaggi, condurrà i corsisti a scoprire le risorse interne personali, a mettersi in gioco in situazioni delicate, affrontando anche tematiche attuali, quali DSA, ADHD, coinvolgendo nel percorso musicoterapico anche i genitori.

“LA VOCE NEI SORDI”

Come può essere la voce nei sordi? E’ ovvio, lo sanno tutti… è gutturale! Chi può contestare questo? I sordi, soltanto loro.

Autore: Giulia Cremaschi Trovesi

“LA VOCE NEI SORDI”

Come può essere la voce nei sordi? E’ ovvio, lo sanno tutti… è gutturale!
Chi può contestare questo? I sordi, soltanto loro.
Per farlo devono rompere le catene del sordomutismo. Possono farcela da soli?
Nessuno di noi può crescere, imparare, a maggior motivo rompere le sue catene [1]senza l’aiuto di qualcuno; tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri. Qualcuno non ci crede? Per rispondere dobbiamo servirci delle parole. Potremmo godere dell’utilizzo delle parole se gli esseri umani non si fossero, da sempre, uniti in gruppo? Che possibilità di sopravvivenza ci sono per chi vive da solo? A partire dal panettiere, al fruttivendolo, l’ufficio postale, i servizi, le scuole ecc., moltissime persone si sono date da fare per predisporci il cibo, i vestiti, le scarpe ecc. istituire le scuole, i servizi ecc.
Senza un interlocutore non ci può essere il dialogo. Un uomo, da solo, non avrebbe potuto parlare. Gli uomini hanno dato vita alle parole. L’essere in gruppo, lo stare, il condividere con gli altri è ciò che chiamiamo “vita di relazione”. Ciò che crea la relazione è il dialogo. Sono passati i tempi delle disquisizioni (ovviamente verbali), sul dialogo verbale e non verbale [2]. Dovrebbe essere chiaro per tutti che il verbale è intriso di non verbale, che il non verbale sfocia nel verbale. La parola è l’essenza del dialogo.
Parola = parabola. Essa è il ponte che consente il dialogo. Le onde sonore della voce di chi parla, fanno convibrare il corpo di chi raccoglie, attraverso l’ascolto (con vibrazione, risonanza), le parole dette.
Anche nei sordi c’è questo corpo che convibra con gli altri, con il mondo? La risposta ufficiale viene dai servizi, dagli enti che si prendono cura dei sordi, dagli addetti ai lavori [3]. È la risposta che abbiamo imparato nel vivere comune: sordo = sordomuto.
Le mie esperienze in musicoterapia con i bambini sordi sono sorte in modo spontaneo. Non ho iniziato con l’essere un’esperta di sordi [4]. Ho iniziato, da musicista, con l’offrire ad un bambino sordo di due anni, l’opportunità di giocare con i suoni, in compagnia con alcuni coetanei. In che cosa consistevano i nostri giochi? Allora mi muovevo sulla scorta degli esempi osservati ed appresi ai Congressi Willems [5]. Non potevo sapere che stavo muovendo i primi passi in uno studio che continua ad affascinarmi. Da un lato andavano a farsi benedire le certezze dei modi comuni di pensare (il sordomuto); dall’altro lato si apriva un orizzonte sempre più vasto. La mamma di questo bambino fu il tramite fra me e l’Istituto di Audiologia dell’Università di Milano, che, allora [6]e per molti anni, è stato il centro italiano all’avanguardia per la sordità infantile. Iniziò così un susseguirsi di esperienze, confronti, studio, conferenze, pubblicazioni ecc.
Musica – Sordità
Le mie competenze progredivano con il procedere delle esperienze. Mi addentravo alla ricerca dell’origine della voce, dell’origine dei suoni, dell’origine del primo respiro che si trasforma in grido, in pianto. Più diventavo abile ad accogliere il senso dei gesti dei bambini sordi più loro si aprivano alla parola in modo naturale e spontaneo.
Mi mancavano i confronti con altri colleghi musicisti che si interessavano al rapporto musica-sordità [7]. Potevo avere scambi professionali con professionisti con altre formazioni. Fui invitata a partecipare ad un convegno durante il quale gli specialisti, a partire dal prof. direttore dell’Istituto di Audiologia, presentarono a turno, i loro modi di lavorare. Il pubblico fu affascinato dal film sulla musica. I bambini sordi che ridevano, cantavano, suonavano, catturarono l’attenzione e fecero sorgere emozioni nei presenti. Ecco… i sordi avevano fatto sentire la loro voce. Io ero stata l’intermediaria fra i bambini sordi ed il mondo dei suoni. Nessuno dell’équipe clinica avrebbe potuto dire quello che altri professionisti avrebbero detto in quegli anni. I professionisti dell’équipe conoscevano quei bambini; essi sapevano che erano sordi profondi. C’era un aspetto che non trovava spiegazioni: loro faticavano per gli accertamenti e la rieducazione; per noi era tutto un gioco.
Ebbi occasione più e più volte di presentare vari film che documentano l’attenzione di ascolto che i bambini sordi sono in grado di sviluppare negli incontri di musicoterapia. Che cosa mi sono sentita dire: “Non sono sordi, sono dei falsi…. lei è una strega…una santa…ci sono i sordi prima della Cremaschi e dopo la Cremaschi ecc.”. Qualcuno dal pubblico mi chiedeva: “ma come fanno a sentire se sono sordi… non riesco a capire”. Non sono mai stata in grado di dare risposte spicciole. I signori increduli se ne andavano convinti delle loro credenze. Un collega di un corso di musicoterapia un giorno, molto seccato, mi chiese: “Ma tu cosa intendi per suono?” Lo guardai e gli risposi: “Fondamentale e armonici”. Mi girò le spalle all’istante. In quegli anni, in quel corso, era un continuo parlare di suono, sul suono, attorno al suono… la mia risposta era lontanissima dalle descrizioni fatte dai colleghi, che, peraltro, non erano musicisti.
Era prevedibile che andasse così. Non si cambia opinione perché, in un film, si vede che alcuni bambini sordi cantano, vociano, si divertono, suonano, rispondono ai suoni ad occhi bendati. Per cambiare opinione occorre porsi in ascolto, sospendere il giudizio [8] , interrogarsi sulle proprie conoscenze, chiedersi che cosa è il suono, essere disposti ad allargare l’orizzonte, modificare il modo di pensare, di agire, di vedere le cose [9]. Si può chiedere questo a persone adulte, sicure delle loro convinzioni, della loro professionalità? Si può chiedere di ascoltare dei bambini che sconvolgono le loro regole? Una collega, un giorno, in tono molto amichevole, mi ha detto, che al pubblico ed ai colleghi, dava fastidio il mio atteggiamento di gioia, per i successi dei bambini. Avrei dovuto essere fredda, distaccata. scientifica, nel presentare i miei lavori. Facevo tesoro di questi commenti. Tornavo a casa, rivedevo quegli stessi bambini, interagivo con loro in presenza dei loro genitori e stavo attenta alle mie emozioni. Ad ogni incontro non smettevano di stupirmi. L’orizzonte delle conoscenze si apriva sempre di più. Nella presentazione dei film ho introdotto gli esami audiometrici. È servito a qualcosa? Chi sa leggerli? Con gli specialisti del settore ho più volte tentato di spiegare la differenza fra suoni puri (solo la frequenza fondamentale) e suoni veri, con timbro (fondamentale ed armonici). In audiometria si fanno i controlli per ottave, in musica si può verificare l’ascolto dei bambini per dodicesimi (i semitoni [10]) di ottava. Non sono stata capita. Non c’era la volontà di ascolto. Una barriera separa la cabina silente, che è scientifica, dagli strumenti musicali che fanno parte di un mondo a sè [11]. Si controllano le capacità di discriminazione per “gap” e picchi sonori. È toccato a me chiedere: “Che cosa si intende con “gap”, con picco?” “Si dice così e si compilano le prove”.
Le prove di ascolto attraverso strumenti musicali [12]non sono, non possono, non devono essere tenuto in conto, non sono scientifiche. I gradi della scala rispettano le regole della natura, quelle regole che abbiamo imparato a conoscere grazie a Pitagora ed ai pitagorici che hanno lasciato documenti scritti. Le regole pitagoriche non sono scientifiche.

Gli Insegnamenti provenienti dai sordi


I sordi mi hanno aperto gli occhi, le orecchie, il pensiero, le conoscenze. La prima regola che è crollata è quella che vorrebbe attribuire l’ascolto soltanto alle orecchie.
Il Corpo Vibrante è il protagonista dell’ascolto. La voce nasce dall’Ascolto.
Vale per noi la regola che vale per il mondo “Essere nel Mondo”. Le onde sonore si propagano attraverso l’aria e coinvolgono tutto ciò che fa parte della realtà (muri, pietre, legni, carta, liquidi, corpi ecc…) attraverso la risonanza. Si tratta di un fenomeno meccanico. A secondo del tipo di onda sonora (frequenza, intensità, timbro, durata) esse coinvolgono volumi da piccolissimi a immensi [13]. Attraverso le risposte dei sordi ai suoni, alla musica, al fare musica ho avvertito che anche il mio corpo convibra con la realtà. Ho cercato di comunicare questo messaggio. I danni derivanti dall’inquinamento acustico dimostrano che tutti riceviamo le onde sonore attraverso il corpo. Le risposte dei sordi ai suoni ci dicono come sia pregnante l’inquinamento acustico nei nostri luoghi di vita quotidiniana, perfino dentro alle nostre case, alle aule della scuole, nei luoghi di lavoro. Il logorio non riguarda soltanto le orecchie bensì il sistema nervoso centrale, esso abbassa i tempi di attenzione degli alunni, distorce la comprensione delle parole, produce danni neurologici nei lavoratori ecc. Questo sta accadendo da decenni ma la consuetudine di credere che si ricevono i suoni soltanto con le orecchie non vuole essere sconvolta. La musica è un’altra cosa; non c’entra con gli esami audiometrici. I bambini sordi sono sordi. Si ricevono i suoni soltanto con le orecchie. Il corpo non c’entra.
Si rivolgevano a me genitori che avevano figli sordi. Incontravo e incontro tuttora bambini che non avevano avuto l’opportunità di giocare con i suoni. In molti casi avevano gli atteggiamenti dei sordomuti (non emettevano la voce), disturbi di attenzione, di comportamento, di relazione. Eppure erano seguiti da specialisti, portavano apparecchi acustici, erano stati protesizzati precocemente… 
Volevo studiare, sperimentare, cercare di capire. Dove erano gli ostacoli? Nei bambini? Sicuramente no…come potrebbero essere di ostacolo dei bambini? Essi imparano a conoscere se stessi attraverso i feedback dei grandi. Essi credono ai grandi [14]. Essi danno le risposte che i grandi si aspettano.

  • Studiare per capire
    …sicuramente …ma che cosa?
    – La musica e la fisica acustica. Ho incominciato a studiare da capo. Ho messo in relazione l’armonia, le regole dell’armonia con la scala pitagorica. Ho messo in relazione il criterio dell’audiometria con le leggi sui suoni armonici. Ho capito il senso dei risuonatori di Helmotz, ossia la funzione delle casse armoniche (per gli strumenti musicali), delle cavità risonanti (per l’uomo). Sono andata a far tarare i miei strumenti musicali idiofoni. Lo schermo delle apparecchiature mi ha visualizzato le differenze di timbro. Ho trovato le stesse visualizzazioni nella parte intitolata “colonna sonora” [15] del film di Walt Disney “Fantasia”. Ho incominciato a confrontare le sonorità dei piccoli strumenti idiofoni, delle percussioni, con i registri del pianoforte. Mi sono procurata la tabella con le misurazioni delle frequenze di tutti gli strumenti musicali e delle voci umane. Ora avevo un quadro di consultazione chiaro, scientifico [16].
    - L’Orecchio. Ho raccolto libri, manuali, testi ecc. Non è facile porre a confronto la mentalità medica con quella musicale. In ogni caso ho riscontrato la stessa rigorosità nella fisica acustica come nella medicina. Allora perché era tanto difficile capirsi?
    - Il mondo della Relazione e della Comunicazione. Quali sono gli autori nell’ambito della psicologia che si preoccupano dei sordi? Sono sordi…non c’è altro da dire. Così ho scoperto che la problematica dei sordi sollecita attenzioni scarse o nulle. Anche questo nasconde dei “perché” proprio nel mondo della relazione e della comunicazione. È come se i rapporti sociali fossero qualcosa di separato dall’affettività, dagli apprendimenti. Si procede per separazioni (handicap fisico, minorazione sensoriale).
    - La linguistica. Come si imparano le parole? Si trattava di un quesito che non mi ero ancora posto. Nella relazione con i bambini sordi il linguaggio è l’asse portante del lavoro. Parole o gesti? Parole e gesti? Quale è la strada più naturale? La ricerca di risposte passa attraverso lo studio della linguistica. Questo può sembrare credibile fino a quando i sordi dimostrano che c’è una strada che non passa soltanto attraverso l’orecchio, c’è il Corpo Vibrante. …”Il fatto è che il significato non è soltanto un fenomeno linguistico. Per dirla in fretta è anche, lo accennava bene ieri Pontiggia [17]un significato gestuale, appartiene alla gestualità. Vi ricordate ieri Pontiggia giustamente reagiva alla teoria della linguistica strutturale di De Saussure che ritiene di poter separare significante e significato e ritiene di venirci a raccontare che le parole, i suoni, le grafie sono insignificanti, arbitrarie. Io ho lavorato tanto su questo e sono contento che l’amico Pontiggia la pensi come me. Questa è una pura sciocchezza. E’ un punto di arrivo non il punto di partenza della significatività” [18].
    - La psicoacustica. La parola nasce dall’ascolto. L’ascolto investe tutto il corpo. La parola è voce, corpo, emozione, relazione con il mondo, con gli altri, con se stessi.

Ascoltare i sordi
Potevo forse separare gli apprendimenti dalle emozioni, dal modo personale di percepire? Più studiavo e più capivo che la verità era nei bambini. I sordi si dimostravano affamati, golosi di suoni. I sordi, come le persone con difetti visivi dipendono dagli occhiali, dipendono dagli apparecchi acustici. Attraverso tutta la corporeità rivelavano e rivelano tuttora in che cosa consiste ricevere le onde sonore. Vanno accostati due aspetti:

Il suono è un fenomeno complesso <————–> La percezione dei suoni è complessa [19].

  • La ricezione dei suoni riguarda:
    - il corpo, per i suoni fondamentali ed i suoni gravi in generale;
    - i residui uditivi, per le formanti armoniche;
    - l’utilizzo degli apparecchi acustici.
    È possibile parlare in questi termini con persone che sono convinte che:
    - si sente soltanto con le orecchie?
    - i timbri sonori, detti anche fonemi, sono i mattoncini che compongono le parole (si imparano i fonemi, poi i bisillabi, i trisillabi ecc.)?
    - le parole sono codici che si imparano a memoria?

La linguistica ha studiato il linguaggio adulto, un linguaggio articolato e strutturato. Da questa visione del linguaggio sono stati dedotti i programmi di lavoro da somministrare ai bambini [20].
I bambini sordi mi stavano insegnando che la voce sgorga dal Corpo Vibrante in ascolto, che la parola nasce, scaturisce spontanea attraverso l’ascolto. C’è un mondo in ogni vocale, in ogni consonante. Mi sono fatta guidare dai bambini. La parola non è un codice. La parola è già in noi, prima della nascita. La parola si forma in noi a partire dal grembo materno, la Prima Orchestra. Ogni mamma, nei mesi della gestazione, parla al figlio con il cuore. Le emozioni della mamma modificano il ritmo cardiaco. Il pulsare materno è un pulsare che parla e trasmette le emozioni al figlio. Le esperienze sonore, in ciascuno di noi, sono radicate nella memoria originaria, la memoria del pulsare cardiaco, il ritorno dello stesso pulsare che permette di riconoscere quello che abbiamo già ascoltato. Senza la memoria originaria non ci può essere parola. Il pulsare investe il corpo, fa crescere il corpo, ci fa passare dall’essere embrione a feto, a bambino. Il neonato è pronto a fare sentire la sua voceperchè i nove mesi di gravidanza sono stati intrisi di timbri sonori, di rumori, di ritmi, di voci, di tutte le esperienze che sono in noi attraverso la Prima Orchestra. Tutto questo vale anche per i bambini sordi. Attraverso la Risonanza Corporea attuata nell’Improvvisazione Clinica al pianoforte, i bambini sordi ritrovano il mondo dell’accoglienza, dell’amore già conosciuto prima di nascere. Si pongono in ascolto, in un ascolto totale che investe ogni centimetro cubo della corporeità. Le onde sonore della risonanza corporea sono fonte di emozioni che i bambini esternano facendo sentire la loro voce.
Non mi sono accontentata di farmi guidare dai bambini, li considero dei maestri. Come posso spiegare questo? Con il fatto che mi sono posta e mi pongo tuttora in ascolto dei bambini, senza giudicare i loro comportamenti, senza chiedere prestazioni. Riprendevo (e riprendo) gli incontri con la telecamera per scovare quali sono gli aspetti umani che favoriscono il farsi spontaneo della voce e della parola nei bambini sordi. I bambini sordi con turbe di comportamento o disturbi veri e propri nella relazione e nel comportamento, erano e sono i maestri più difficili e più efficaci [21]. Dopo aver rivisto le immagini filmate con altri professionisti, sorgevano discussioni tanto vivaci quanto importanti. Occorreva intraprendere uno studio centrato sul pensiero. Dagli insegnamenti dei sordi nascono i principi teorico-epistemologici per i libri “L’Incanto della Parola” e “Dal Suono al Segno”. Gesto, suono, segno sono un unico evento. A contatto diretto con i suoni (risonanza corporea), i bambini sordi, come tanti altri bambini che presentano difficoltà, turbe assenza del linguaggio, si aprono alla parola, spontaneamente. Questo è inaccettabile per i tecnici che separano la parola dal gesto, il gesto dal segno, il senso dal significato, il significato dal significante ecc. Il problema non risiede nei bambini ma nelle credenze di chi ha assorbito un certo modo di pensare e lo vuole applicare ai bambini sordi con la convinzione che essi debbano, per forza, rispettare ed adeguarsi a queste regole. L’insuccesso conferma i danni attribuiti alla sordità. La parola non nasce dai suoni, secondo questo modo di pensare; la parola è un codice da imparare a memoria. Ma allora, come nasce, come evolve la memoria? I sordi insegnano come si forma la memoria acustica, quale è il senso di un singolo suono come fonte, origine della parola, il valore del dialogo non verbale come origine del verbale.
Il pensiero
C’è lo studio utile per superare gli esami e c’è quello utile per cercare risposte agli interrogativi. Si genera un rinvio di interrogativi. Avevo già ri-incominciato da capo a studiare la fisica acustica, l’armonia, la polifonia vocale, il canto gregoriano, alla ricerca della musica. Ora riprendevo autori studiati a scuola per cercare di scoprire il senso dei loro pensieri.
Maieutico… ossia far in modo che una persona nasca un’altra volta. La ricerca maieutica della verità è al tempo stesso destabilizzante e feconda di risultati.
Sapere è sapere di non sapere. Sapiente è colui che ammette di non sapere”. Questo modo di esprimersi costò la vita a Socrate e, nel contempo, lo consacrò all’immortalità.
“Conosci te stesso” era scritto sul tempio di Delfi. Conoscere se stessi è apparentemente facile.
Socrate, condannato a morte per il fascino che esercitava sui giovani, mi ha affascinato quando avevo quindici anni. Ora non si trattava più di un entusiasmo adolescenziale; queste parole suonavano dentro di me in un altro modo. I bambini sordi, soprattutto quelli in maggiori difficoltà [22], erano fonte di scoperta, di impegno, di gioia. Avrei mai potuto nascondere o mascherare queste emozioni? Incominciavo a capire e gioivo Gioia – Gioire – Gioco. La musica è un gioco, Suonare, per le lingue: inglese, tedesco e francese, è giocare.quello che capivo. Avevo, come ho tuttora, la consapevolezza di capire soltanto in parte… c’è sempre il “domani” che mi offre del tempo in più. Tutto questo va a cozzare contro le esigenze delle misurazioni, delle certezze, dei programmi di lavoro. In Maurice Merleau-Ponty [23] trovai spiegazioni a quello che stavo vivendo. La fenomenologia rispetta la soggettività. Poiché io non sono sorda come posso imporre al bambino quello che io credo essere il modello linguistico da imitare? Ogni persona percepisce in modo personale.
Ad anni di distanza, vedo con chiarezza il perché dei contrasti con i miei colleghi al corso di musicoterapia (e non solo). Per i loro studi ed il loro modo di pensare il sordo è un diverso con delle connotazioni che lo caratterizzano [24]. Ci troviamo di fronte all’oggettività. Per loro i sordi sono caratterizzati dai limiti descritti sulle pagine dei testi.
Per me ogni bambino sordo è una persona, diversa da tutte le altre, è fonte di scoperte, una sorpresa continua. Mi trovo di fronte alla soggettività.
Quando un bambino sordo fa qualcosa di straordinario, di imprevedibile (suonare al tempo, intonare la voce, improvvisare una melodia, riconoscere i gradi della scala, ossia essere in grado di fare un dettato musicale ecc.) la spiegazione più comoda è “Si tratta di un caso”. Questo “caso” può diventare una regola, un’abilità acquisibile anche per altri bambini? Come si fa a rispondere? Personalmente non ho mai trovato risposte facili. Più che risposte trovo domande. Allora la cosa si pone in altri termini. Se un bambino sordo fa qualcosa di incredibile rispetto ai modi di pensare comuni, mi chiedo: “Incredibile rispetto a che cosa?” La risposta è: “Rispetto alla descrizione dei sordi, dei sordomuti”. Trattando un sordo da sordo, ossia privandolo del mondo dei suoni, soprattutto del suo modo di ricevere i suoni, lo si fa entrare a viva forza nel recinto del sordomutismo. Sorge un’altra domanda: “Quale è il suo modo di ricevere i suoni?” Risponde Socrate: “Sapere è sapere di non sapere”. Se riesco a pormi in ascolto della persona forse intravedo quale è il suo modo di percepire. Ecco il motivo per il quale i sordi possono cantare [25].

  • La Risonanza Corporea
    Come ho fatto a pensarci? Non ci ho pensato io… i bambini sordi (sordomuti) dell’Istituto per sordomuti della mia città mi hanno portato a scoprire la potenza della risonanza del pianoforte a coda. Stavano così abbracciati al pianoforte che ho dato loro il permesso di andarci sopra. Si stendevano e non si muovevano più. Che cosa stava accadendo? Non lo so… perché vogliamo saperlo? I sordi sono come noi, il loro corpo vibra come il nostro, essi vivono nel mondo come noi. Una differenza c’è. Spesso, ancora troppo spesso, i sordi devono vivere in un mondo circoscritto per loro, per le convinzioni degli udenti.
    Arrivavano i risultati a raffica: prolungarsi dell’attenzione, modificazioni del respiro (dallo stato di stress al rilassamento spontaneo), cambiamenti della voce, desiderio di parlare, memoria acustica, voglia di imparare, richiesta del nome degli oggetti ecc.
    Ci sono modi diversi di reagire a tutto questo. Io ne ho sempre gioito. Una professionista esperta e responsabile del servizio dei sordi per la Provincia, commentò: “La Cremaschi ha scoperto l’acqua calda!” Ma si, accettai anche questo. Al mondo c’è posto per tutti. La professionista era proprio sorda, colpita dal tipo di sordità incurabile, la sordità di chi non vuole sentire. Con questi personaggi (e sono tanti, proprio tanti), non c’è proprio niente da fare. Il filosofo Carlo Sini, nel suo libro “Idoli delle conoscenze” definisce questi atteggiamenti come superstizioni. Credere che il sordo non sente nulla è superstizione, come credere che se versi il sale accadrà una disgrazia.
    “I sordi sentono le vibrazioni”
    “I suoni sono vibrazioni
    Più il bambino sordo vive gli incontri di musica con gioia, più la sua voce si arricchisce di armonici, diventa acuta, squillante, gioiosa, tipicamente infantile.
    Per lavorare in questo modo mi sono liberata dallo scolasticismo [26].
    Ho trovato delle regole chiare, precise, di natura musicale, matematico-fisico-acustica e filosofica. Musica, matematica e filosofia sono sempre andate d’accordo. Pitagora ne è l’incarnazione storica.
    Così trovo dei maestri:
    - i bambini;
    - i grandissimi della storia.
    Socrate, Platone, Pitagora, Guido d’Arezzo, Husserl, Merleau-Ponty. Edith Stein ecc.
    La risonanza corporea non è certo una novità. Il Corpo Vibrante è all’origine della notazione musicale. Per comprenderlo occorre guardare ai segni della scrittura ritrovandone il valore simbolico, piuttosto che giudicarla come una scrittura convenzionale. Lo stesso vale per le lettere dell0alfabeto, per i numeri.
    I bambini sordi mi hanno aperto delle autostrade da percorrere con grande serenità. Sono autostrade perfino negate ai bambini normali messi in condizione di imparare a leggere, scrivere e far di conto in modo meccanico, perfino addestrativo.
Note

[1Mi riferisco al mito della caverna di Platone.

[2Mi riferisco alle interminabili discussioni, ormai datate nel tempo, al corso di musicoterapia di Assisi.

[3Oltre ai servizi audiologici comprendo gli insegnanti, i professori che preparano gli insegnanti di sostegno, i musicoterapisti, i tecnici, i rieducatori ecc…

[4Se voglio essere sincera le mie esperienze risalgono all’infanzia. Abitavo nella stessa via dove aveva sede l’Istituto Sordomuti di ambo i sessi”. Ai funerali partecipavano anche le file di bambini orfani e sordomuti. Gli orfani erano rimproverati perché chiaccheravano invece che pregare. I sordomuti parlavano con le mani e con gli occhi. Si guardavano fra di loro. Non cercavano, neppure con lo sguardo, i bambini del quartiere.

[5Edagr Willems non ha realizzato esperienze con bambini sordi.

[6Parlo degli anni settanta.

[7Mentre io andavo alla ricerca dei principi umani validi dalla notte dei tempi, i professionisti con i quali cercavo di parlare riponevano la loro fiducia negli oggetti, nelle macchine.

[8“Un sordo sente le vibrazioni”.

[9Come si dice in PNL: “La mappa non è il territorio”.

[10Per chi conosce la musica sento il dovere di confermare che i bambini sordi, quando incominciano ad ascoltare, riescono a riconoscere le differenze fra i semitoni.

[11Dobbiamo riconoscere che la cultura musicale è in grave degrado. Gli strumenti musicali sono frutto di studi e calcoli che pochi conoscono. Basta un nulla per dover accordare uno strumento. Non si può suonare insieme se non ci si calibra sullo stesso diapason. L’orchestra inizia dopo il controllo del diapason.

[12Parlo di strumenti musicali acustici non certo di quelli elettrici. la ricezione passa attraverso le casse di risonanza. I suoni sono suoni veri, non campionati, privi di risonanza propria.

[13Le onde sonore prodotte da un uccellino sono frequenze acute, le onde del terremoto sono frequenze gravissime. In ogni caso di tratta di onde vibratorie.

[14Questo non riguardai bambini.

[15La rappresentazione dello spettro sonoro.

[16Non servì a nulla. Non fui neppure ascoltata. I miei colleghi al corso di musicoterapia continuavano a dire che non era scientifico.

[17Giuseppe Pontiggia, l’autore del libro: “Nati due volte”

[18Carlo Sini F.I.M. presso “Le Stelline”, dal titolo “Il canto originaro”, Milano 2001, Convegno”

[19La diagnosi della sordità infantile è difficile e delicata. Come possiamo essere certi delle risposte ai suoni provenienti da bambini di otto, dieci mesi? Durante un convegno svoltosi a Bergamo nel 1991, il prof. Massimo Del Bo, allora direttore dell’Istituto di Audiologia dell’Università di Milano, dichiarò che la percentuale di errore nella diagnosi di sordità infantile si aggirava del 90-95%.

[20Nella mia pratica di lavoro incontro numerosi bambini “normali” che hanno difficoltà nel linguaggio e che non possono essere seguiti in logopedia perché: “Non sono pronti per il lavoro logopedico”. Infatti i problemi nel linguaggio sono legati con quelli di comportamento, di attenzione, di relazione. Come è possibile somministrare un programma di lavoro a bambini che non stanno attenti, non guardano in viso, non ascoltano? Il linguaggio nasce nella relazione.

[21Non esistono studi che dimostrino quanti sordi possono diventare psicotici. Non riuscire a comunicare, ad esprimere se stessi, porta conseguenze gravissime per la persona. Certe rigidità della rieducazione, la debolezza di alcuni genitori, il rifiuto del figlio sordo conducono la persona sorda in un vicolo cieco. Non dimentichiamo che essi sono stati chiamati sordomuti e che ad essi veniva attribuita l’insufficienza mentale. Il vecchio termine inglese deafdumb, indicava sordo-scemo.

[22Quelli che non rispondevano a nulla, che erano aggressivi, sospettosi, privi di linguaggio, con turbe nella relazione, nel comportamento, negli apprendimenti.

[23“Fenomenologia della percezione”

[24Nel “manuale di musicoterapia” R. Benenzon dice “…applica sui sordi il programma che usi per i deficienti mentali”

[25Nel 1841 il prete veronese Antonio Provolo pubblicò il saggio “Sul far cantare i sordi dalla nascita”. Così c’è anche la con ferma storica che i sordi possono cantare.

[26Non mi è stato difficile perché non l’ho mai sopportato neppure sui banchi scolastici.

FRA SUONI, MUSICA E PAROLE

Autore: Giulia Cremaschi Trovesi

A partire da una bambina sorda…la questione della Lingua Parlata

Da che parte si può incominciare?
Incomincio dal porre delle domande. 
Quale è il Linguaggio spontaneo per un bambino sordo? 
La lingua parlata o la lingua dei segni? 
Possiamo tentare di rispondere in modi differenti:
– per i sostenitori dell’oralismo è la lingua parlata,
– per i sostenitori della lingua dei segni è la lingua dei segni.

Per i diretti interessati?

Non possono rispondere perché, come nell’esempio che riporto, la bambina è troppo piccola per poter conoscere e decidere ciò che va meglio per lei. 
I sordi adulti si schierano dalla parte del modo con il quale sono stati cresciuti.

La questione è ancora più grande se entriamo nei meandri teorici. 
– Per i sostenitori dell’oralismo la Parola è un codice che si impara a memoria. 
– Per i sostenitori della gestualità i Gesti sono codici che si imparano a memoria. 
Basta uno sguardo per comprendere che oralismo e gestualità intendono l’essere umano come colui che impara attraverso la ripetizione dell’esempio dato dal tecnico della rieducazione.

Esiste un’altra strada?

Per tracciare questo percorso chiedo la collaborazione di una bambina di cinque anni. 
La chiamo Silvia. 
Entra nel mio studio con i genitori e con la dott.ssa Simona Ghezzi che, da qualche mese, la segue in musicoterapia. 
Come può essere una bambina di cinque anni? E’ una bambina vivace e curiosa. Il suo sguardo corre nello studio attirato dagli strumenti musicali e dai materiali (si tratta di giochi colorati che suonano) raccolti in numerosi cesti di vimini. 
Che cosa dice il non-verbale della bambina? Parla della voglia di provare un po’ di tutto senza essere disturbata dai grandi. 
Posso permettere questo? 
Posso permettere alla bambina di scegliere. L’utilizzo dei materiali, il giocare accade fra di noi.

La mamma mi accenna agli eventi più importanti della vita di questa loro seconda figlia. La sordità è stata diagnosticata poco prima dei due anni. La bambina era molto comunicativa; per questo motivo c’è voluto del tempo per accorgersi che il linguaggio verbale non si evolveva. In breve tempo è stata data la diagnosi di sordità profonda e sono stati applicati gli apparecchi acustici retroauricolari. Inizia il percorso della logopedia presso un centro pubblico. 
I genitori cercano su Internet le informazioni di cui hanno bisogno. La mamma trova anche la voce “musicoterapia”. Vorrebbe saperne di più. La logopedista le risponde che un bambino sordo con apparecchi acustici può utilizzare la musica come gli altri bambini. 
Nel volgere dei due anni successivi, la bambina ha iniziato un progressivo processo di chiusura nei confronti della vita. 
“La bambina stava diventando autistica”…sono le parole dette dalla mamma. 
I genitori, ormai in grande preoccupazione ed ansia, hanno trovato come unica soluzione, l’impianto cocleare.

Dopo che la bambina è stata sottoposta all’intervento chirurgico per l’introduzione dell’impianto cocleare i genitori si sono rivolti ad una logopedista privata e, contemporaneamente hanno voluto che la bambina fosse seguita in musicoterapia, dalla dott.ssa Simona Ghezzi.

“L’impianto cocleare non cambia niente. Ormai la situazione è veramente difficile; non si può tornare indietro”…sono parole del papà.

“La bambina non guarda le persone, non risponde a niente, non comunica. Non sappiamo più che cosa fare. La logopedista le fa tenere l’impianto cocleare da una parte e l’apparecchio acustico sull’altro orecchio. Quando la bambina è stesa sul pianoforte si toglie l’impianto” …sono parole della mamma.

La bambina sta manifestando qualcosa di suo. Ascoltando attraverso la corporeità (il Corpo Vibrante) prende la sua decisione.

Non devo stancarmi di ripetere che la ricezione delle onde sonore (sentire…udire…ascoltare) passa attraverso tutto il corpo, secondo le proporzioni dei risuonatori corporei (tutto il corpo è un risuonatore) dei suoni armonici (Il timbro sonoro è dato dai suoni fondamentali e dai suoni armonici).
Il suono è un fenomeno complesso – complessa è la sua ricezione.

In quale relazione avviene lo stimolo elettrico prodotto dall’impianto cocleare sul nervo acustico con la risonanza corporea?

Nessuno risponde a questa domanda. E’ una domanda che non ci si pone.

Silvia, a contatto corporeo diretto della cassa armonica del pianoforte a coda, si spegne l’impianto.

Che cosa avverte “dentro” di lei? 
Che cosa ci comunica?

Rimane in ascolto, stesa in posizione prona, rilassata, con le braccia aperte, la testa appoggiata, il respiro regolare, disteso.

Che cosa suona il musicoterapeuta in questi momenti?

Si parla di improvvisazione clinica al pianoforte. Il musicoterapeuta osserva la corporeità della persona mentre suona. Il corpo è una “partitura musicale vivente”. Improvvisare vuol dire scegliere i registri musicali (il pianoforte comprende una gamma molto estesa, dagli Hz 27,50 fino agli Hz 4184. I valori sono riferiti alle frequenze fondamentali. La gamma si arricchisce con le formanti armoniche fino oltre i 20.000Hz). Improvvisare vuol dire giocare con i contrasti fra gli accenti, scegliere i ritmi, gli accordi, i giochi melodici. La scelta avviene attraverso la lettura della “partitura vivente”.
Silvia è in ascolto con tutta se stessa. Attraverso la risonanza corporea ritrova l’accoglienza conosciuta nel grembo materno, la Prima Orchestra. Ritrova l’accoglienza, piuttosto che essere sottoposta alla richiesta di prestazioni. Rimane a lungo in ascolto. La mamma trova la cosa molto strana perché è una bambina vivace, come siamo soliti dire “non sta mai ferma”.

Nell’incontro che si è svolto nel mio studio, mentre la bambina è stesa in ascolto, Simona attua con lei quello che abbiamo chiamato “Relazione Circolare nella Tangibilità”.

La Relazione Circolare è una situazione nella quale sono presenti: i genitori, la bambina, il musicoterapeuta e un altro professionista che opera con lei. In questo momento siamo io e Simona. I genitori condividono le emozioni, condividono gli eventi.

Tangibilità, dal verbo latino “Tango-is – Tetigi –Tactum – Tangere” . Il riferimento alla lingua latina è doveroso. In italiano diciamo Toccare. Non è proprio la stessa cosa. TacTum, con la presenza delle due “t” specifica che Toccare è, nel contempo, Essere Toccato (vale anche il contrario: se Tocco, una persona o un oggetto, sono Toccato dalla persona o dall’oggetto). TANGO, esattamente come per la danza (il tango argentino), implica l’intenzionalità del toccare. In questo caso l’intenzionalità consiste nel non lasciare una bambina sola e nell’avvicinarsi a lei con garbo, chiedendole il permesso.

La mamma ha già colto nei rifiuti della figlia atteggiamenti che essa stessa ha individuato di tipo autistico. La mamma ha colto nel segno. Non esistono indagini sul fatto che un bambino sordo è a rischio di psicosi e di autismo se non riesce a sentirsi accolto e non comunica. Queste eventualità rientrano nei danni secondari dovuti alla sordità. Quando le cose vanno male, molto male …la prassi vuole che sia colpa della famiglia.

Il participio passato del verbo “tango” è TACTUM, il nostro TATTO. Simona è a contatto diretto con la bambina toccandola, ponendo le mani sul suo corpo in coerenza con le sonorità provenienti dal pianoforte. La mani di Simona toccano la bambina; il corpo della bambina tocca le mani di Simona. E’ il Con-Tatto. E’ quello che la bambina stava rifiutando e che la persona autistica rifiuta con determinazione. Il musicoterapeuta improvvisa calibrando le sonorità sulla corporeità della bambina; il coterapeuta è a contatto diretto e segnala, attraverso la sua postura, i suoi gesti, le modificazioni del tono corporeo che avverte nella bambina.

Chi decide quando è ora di smettere? Silvia.

Quando la bambina si mette seduta mi guarda diritto negli occhi. Le chiedo se vuole il cesto dei giochi (gli strumenti musicali idiofoni, particolarmente adatti alle mani infantili). Si, li vuole. Giochiamo tutti. Indico ai genitori di prendere gli stessi strumenti che prende la bambina e creiamo dei giochi musicali che nascono dai gesti della bambina.

Silvia è attenta e ascolta. Le propongo di giocare con un tamburo che appoggio sul pianoforte. La bambina non se serve per picchiare. Che cosa fa? Capovolge il tamburo e si rannicchia al suo interno. Continuo a suonare e cantiamo il “Girotondo” Mentre cantiamo Simona con i genitori fanno ruotare il tamburo. La bambina rimane in ascolto, rannicchiata “dentro” alla cassa armonica del tamburo. 
Che cosa ci sta dicendo? 
Quello che mi dicono tanti, tanti altri bambini. Vuole essere accolta; cullata, compresa. Si lascia agire da noi, si sta affidando a noi. 
Cambiamo giochi. Prendo il cesto dei campanelli. Sono dei cerchietti intrecciati in midollino con le bubbole di metallo e nastrini colorati. Silvia ci gioca. Li prende, li scuote, li infila sulle braccia. Mi guarda. 
Le dico: “Campanelli!” 
Mi sorride e dice :”Dedèni”

CHE COSA è IMPORTANTE?

La mamma si rivolge alla bambina e le scandisce: “CAM – PA – NE – L – LI”.
Continuo a suonare e richiamo l’attenzione della mamma. 
La bambina ha compiuto cinque anni. 
Da circa due anni porta l’impianto cocleare. 
Nei due anni precedenti ha portato gli apparecchi acustici retroauricolari. 
Da quattro anni è seguita in logopedia, sia pure da professionisti diversi. 
Nel periodo precedente l’accertamento diagnostico è stata una bambina vivace ed affettuosa. 
Dopo l’applicazione degli apparecchi acustici, la bambina ha assunto un comportamento progressivamente sempre più chiusa in se stessa (parole della mamma). 
La musicoterapeuta Simona Ghezzi, quando ha conosciuto la bambina, in considerazione dei suoi rifiuti, ha dato alla mamma da leggere la sua tesi di laurea in filosofia: “Sordità e autismo; due aspetti dello stesso problema”.
La bambina sembra avviarsi verso un percorso di apertura.

Propongo di ASCOLTARE la bambina il più possibile. COME? 
La mia proposta passa attraverso due parole: “CAM – PA –NE – L – LI” o “Campanelli”? con la contabilità melodica della voce che comunica? 
La mamma parla così perché così fa la logopedista.

Nella scansione della sillabazione (cam – pa – ne – l –li) c’è l’impegno dell’adulto che si sforza al massimo per far si che il bambino sordo possa capire. In altre parole l’adulto presuppone che il sordo altrimenti non riesce a capire.

Vero o Falso?

Per rispondere rivolgiamoci a Silvia. E’ sul pianoforte. L’impianto cocleare è spento. Porta un solo apparecchio acustico. E’ interessata ai campanelli. Che cosa attira l’attenzione? I colori, le forme, i suoni? Il fatto che tutti stiamo condividendo il gioco con lei? Un po’ tutto. 
Io dico alla bambina “Campanelli” e la bambina, sorridendo, dice: “Dedèni”.

“Dedèni” è “Campanelli” nel linguaggio attuale di Silvia. 
Dobbiamo decidere se ci va bene o se non ci va bene. 
Nel caso in cui bene dobbiamo esporre il perché! 
Nel caso in cui non va bene dobbiamo esporre il perché!

Siamo tutti d’accordo che va bene. Ora tocca a me spiegare perché va bene. 
Se abbiamo avuto l’occasione abbiamo potuto osservare che i bambini (ossia ciascuno di noi nella nostra storia), intorno al primo anno di vita e per i mesi successivi, puntano il ditino verso quello che ha attirato la loro attenzione. Che cosa indicano con il ditino indice puntato? Chiedono il nome delle cose. Gli diamo il nome delle cose oppure gli chiediamo di esercitarsi sulle singole lettere, sui fonemi, sulle sillabe, secondo la prassi logopedica? 
A noi spetta il compito di pronunciare i nomi nel modo corretto; i bambini ripetono a modo loro affinando via via, attraverso il parlare, le loro abilità fonatorie (assimilazione progressiva). Questa è la strada tracciata dalla naturalità degli eventi. E’ normale che le mamme richiedano ai figli di esprimersi meglio, quando è difficile comprenderli. Si tratta di richieste motivate dal desiderio di comprendere il figlio non certo dettate da esigenze tecniche.

Analisi o Sintesi

Nei nostri percorsi di apprendimento conta di più l’analisi o la sintesi? Ci vogliono entrambe. Bisogna saper valutare i tempi, ciò che intercorre fra analisi e sintesi. 
La realtà è complessa e gli apprendimenti sono complessi. 
Il procedimento analitico è lineare. 
Affido il senso di quello che ho scritto alle parole di Carlo Sini dalla prefazione al libro “Dal Suono al Segno” (G. Cremaschi Trovesi-Mira Verdina, ed. Junior BG 2000). 
“Spesso la potenza e l’efficacia pratica dell’analisi ci rende ciechi e dimentichi del momento globale del comprendere, che nondimeno è all’origine di ogni nostra esperienza e di ogni nostro apprendimento. Finiamo allora per essere indotti a credere che gli elementi emersi nell’analisi siano essi stessi originari, e non il frutto di una nostra operazione scompositiva sul corpo indistinto della primordiale comprensione. 
Di questo errore di prospettiva soffre in particolare ciò che chiamiamo linguaggio. A partire dalla mirabile analisi e trascrizione del discorso operata dai segni stilizzati dell’alfabeto (una delle più perfette e longeve creazioni dello spirito greco), ci siamo per esempio irriflessivamente convinti che le “lettere” (vocali, consonanti, sillabe) siamo i MATTONI ORIGINARI che costituiscono “in sé” il linguaggio. Che le cose non siano così semplici basterebbe a dimostrarlo il fatto che nessun bambino ha imparato o imparerebbe a parlare grazie a un apprendimento preventivo, separato e analitico dei “suoni del linguaggio che compongono le parole”; il bambino procede per UNITA’ di SENSO GLOBALI (‘mamma’ ‘pappa’), dopo vocalizzi di prova e addestramento, unità di senso che connette in globalità più ampie (mamma:pappa!)”.

Il “Dedèni” di Silvia è il suo modo di intendere Tutta la parola campanelli. Ci sono il ritmo, l’accento e la melodia della parola (la Metrica). Tutti i bambini hanno bisogno di cogliere le parole nella loro complessità di ritmo-accenti-melodia e senso. In mancanza di tutto questo la parola perde il suo essere canto e senso. La frantumazione delle parole in sillabe ne fa perdere il senso. 
I bambini sordi, ancor più dei bambini udenti, necessitano della musicalità della parola. Il senso comunicativo della parola è nella sua musicalità, nel fatto che la parola è canto. 
Riusciremo mai a superare le barriere che la consuetudine degli ultimi secoli ha creato fra le materie di studio, in particolare il separare l’ARTE dagli altri studi? 
Così ci siamo abituati a collocare le parole come codici, non come qualcosa che nasce dalla relazione uomo-mondo. 
Il ditino puntato del bambino piccolo che chiede i nomi delle cose mentre lo teniamo in braccio è la dimostrazione dell’Essere nel Mondo, dell’imparare a vivere in relazione con gli altri, con il mondo, con se stessi.

RISVEGLIO

Autore: Diffidenti Gloria

Questo articolo presenta, in sintesi, i contenuti della tesi di laurea in “Scienze dell’educazione” (aprile 2009).

Il desiderio della parola – La natura fenomenologica del linguaggio
Armando editore, Roma 2010

Autore: Diffidenti Gloria

«La vita è ricordarsi di un risveglio». [1]
Questi versi contengono l’opera di Sandro Penna che così racconta il suo rapporto iniziale con Saba:
«Appena ebbi un gruppetto di poesie, mi capitò di leggere sul giornale che i nostri poeti più famosi erano tre: Saba, Ungaretti, Montale; e di Saba appresi che aveva una bottega di antiquariato a Trieste, in via San Nicolò… Mi dissi: ecco a chi manderò a leggere le mie poesie, per sapere che cosa sono. […] La risposta arrivò subito, (un biglietto…) in cui era scritto tutto il bene della prima, di cui ho parlato; mentre le altre venivano considerate un po’ acerbe. Quelle cose “acerbe” che non piacevano ancora a Saba per via della forma, come diceva lui (non le ho mai stampate, benché le conservi ancora), erano venute tutte dopo la prima, quella che egli trovava meravigliosa. Di qui ho capito che l’ispirazione è quella che conta, per me, il resto è meno, anzi non conta niente». [2]
Leggendo i versi del poeta sono rimasta piacevolmente colpita dall’immediatezza e dalla brevità dell’opera, attribuendogli un mio significato. Solo leggendo la postfazione ho colto il senso e la profondità che l’autore attribuisce alla parola risveglio. L’ispirazione in poesia come appunto nella vita è qualcosa di inatteso, imprevedibile ma è ciò che ci permette di essere, come lo svegliarsi ogni mattina di vivere.
Il monito dell’autore ci porta al valore del ricordarsi, dell’essere consapevoli.
Spesso nella frenesia del fare quotidiano si da per scontato, si mette in parentesi ciò che ci ispira, le nostre motivazioni.
Con queste parole intendo affermare che per me l’incontro con la musicoterapia si è rivelato un triplice risveglio. Da un lato, è stata un’esperienza inaspettata: avendo fatto un corso per scelta personale avevo pensato il mio tirocinio formativo in quella direzione, per svariati motivi invece non è stato possibile e la mia tutor mi ha consigliato di fare la mia esperienza presso lo studio A.P.M.M. (Associazione Pedagogia Musicale e Musicoterapia) modello Musicoterapia umanistica di Giulia Cremaschi Trovesi. Dall’altro, entrando nel vivo dell’approccio ho colto come la musica stessa sia risveglio per i bambini che intraprendo il percorso in musicoterapia; in ultimo la ricchezza di questo percorso ha modificato il mio sguardo e le mie motivazioni profonde.
Mi ha portato a considerare come molto spesso diamo per scontato che il motore del nostro esserci; è la motivazione che nasce dalle emozioni autentiche.
«La motivazione è l’emozione interiore che spinge l’essere umano, per tutta la vita, a compiere o non compiere azioni, ad allacciare o rifiutare relazioni, ad intraprendere o tralasciare esperienze». [3]
Ciò che inizialmente mi ha guidato nella scelta di intraprendere un tirocinio formativo è stato l’interesse ad approfondire il tema del linguaggio.
Oggi più che mai, si parla di comunicazione di ogni genere e tipo, di possibilità di vicinanza e relazione nel mondo attraverso la diffusione della rete, ma paradossalmente si perde sempre più la capacità di dialogare con le persone che ci stanno accanto.
Così mi sono chiesta: come può quello che viene definito un codice arbitrario creare allo stesso tempo ponti e barriere invalicabili (che nel mio lavoro di tesi ho chiamato muri)?
«Siamo così abituati all’uso del linguaggio e alle sue sterminatamente antiche interpretazioni dei “fatti” che cadiamo continuamente nel pregiudizio di credere che le parole siano cose, cioè che mostrino direttamente le cose corrispondenti, e che le cose abbiano di per sé la forma che esse hanno assunto grazie alle nostre parole» [4]
Come bene esplicita, in questa citazione, il filosofo Carlo Sini, il linguaggio, e più propriamente il suo uso, è un mondo spesso sottovalutato, dato per scontato e ci si affida unicamente al suo aspetto strumentale-tradizionale. Nella vita quotidiana sempre più mi rendo conto dell’importanza che un linguaggio pensato esercita nell’intrecciarsi di relazioni, esperienze, emozioni. Oggigiorno siamo bersagliati da cartelli, insegne, slogan pubblicitari che si servono di messaggi brevi ma efficaci per indurre al consumo e per creare bisogni che l’uomo si convince di avvertire.
Questo bombardamento mediatico trasforma il bisogno in oggetto; così come la comunicazione diviene messaggio funzionale. Tale stile rimanda ad un’immagine artefatta della realtà, perché i bisogni non possono essere cose, in quanto «senza vita sociale non ci sarebbe il linguaggio. La parola nasce nel dialogo» [5]. Quest’ultimo può divenire invece, strumento per ergere muri: «impegnati a guadagnare di più, per potersi permettere le cose di cui sentono di aver bisogno per il proprio benessere, le donne e gli uomini di oggi hanno meno tempo per la reciproca empatia, per confrontarsi apertamente, sia pure, talvolta, in modo sofferto e faticoso, sui reciproci problemi e fraintendimenti; meno ancora avranno il tempo per risolverli» [6].
Quando, invece, le emozioni profonde, condivise con l’altro, danno forma alla parola e ad una comunicazione autentica, favoriscono la protezione e la sicurezza della rete sociale su cui l’identità si poggia.
Con le parole di Giovanna di Piana, se la nostra società è intrisa di razionalismo, come tale, nasconde una logica di dominio che sradica ogni sensibilità verso l’accoglienza dell’altro, finendo così per bloccare ogni relazionalità. Tutto ciò favorisce un solitario ripiegamento nel privato.
Ecco ciò che io chiamo”muro”; una barriera che isola dagli altri e allontana sempre più da noi stessi, poiché il riconoscersi è conoscere l’altro.
La crescente omogeneizzazione culturale, la svalorizzazione dell’individualità, sovradeterminazione degli stili di vita pongono sempre più i soggetti davanti alla necessità di inventare i loro rapporti con gli altri, senza poter contare su riti antichi, punti di riferimento conosciuti, abitudini comuni che generalmente costituiscono delle forme precostituite di accettazione, di fiducia o di stima reciproca. Ciò porta ad essere sempre più esposti gli uni agli altri in una sorta di nudità sociale che non ha precedenti nella storia delle civiltà. È per questo che diviene urgente reinventare la fiducia nell’altro e costruire le relazioni dei diversi gruppi su nuove basi, da costituire o da ricostituire. Questo ridisegna praticamente la figura dell’homo œconomicus indicandone i problemi. Non dovrebbe dunque stupire il successo della scelta razionale.
Ormai ognuno, nella propria vita sociale, sembra riprodurre il dilemma del prigioniero nel quesito della misura in cui ci si possa fidare dell’altro. Ed è così che, in una trasposizione della teoria hobbesiana della società in cui Homo homini lupus, si moltiplicano le domande di riconoscimento, in relazione alla sua mancanza ed in funzione della nuova fragilità delle appartenenze. Si tratta di una situazione di ricomposizione generale dei rapporti sociali, ma soprattutto, al di là delle espressioni sociali del riconoscimento, è l’affermazione della dignità stessa della nostra umanità ad essere in questione.
«È quest’esigenza che deve essere interrogata. Ed è a questo che può contribuire un approccio antropologico, intendendo qui l’antropologia come la disciplina che ricava i suoi dati da inchieste etnografiche e riflette sul loro significato. Non si tratta, attraverso il ricorso a tali dati, di arrivare ad una sorta di fondazione genealogica del problema. Si tratta, al contrario, di prendere questi dati come testimonianze di pratiche sociali il cui senso può apparirci meglio grazie al differenziale delle distanze interculturali e delle variazioni tra le epoche, permettendoci di comprendere ciò che nella nostra epoca è stato cancellato o spostato, trasformato o ancora inventato come un problema interamente nuovo». [7]
È con questo sguardo che l’archeologo britannico Steven Mithen indaga la storia evolutiva dell’uomo, con Il canto degli antenati, considerando la propensione a fare musica uno dei più misteriosi, affascinanti e allo stesso tempo trascurati tratti distintivi del genere umano.
Con uno sguardo diverso, ma profondo e complesso Giulia Cremaschi Trovesi ci richiama, invece, alla musica nelle sue più svariate sfaccettature, in particolar modo alla dimensione della relazionalità radicata nel Grembo Materno.
Con la musica, col dialogo sonoro, il ripiegamento solitario nel privato non è possibile, «perché la musica è nata come fatto sociale e continua a restare un fatto sociale». [8]
Augusto Ponzio sostiene, inoltre, che «La musica non può appartenere a un pensiero che si è liberato dal corpo assimilando a sé tutto il razionale». [9] Per Luigia di Pinto, l’autrice del testo, Metamorfosi e musica in fenomenologia, questa frase racchiude la definizione di musica per la fenomenologia, a partire da Husserl per arrivare fino ai nostri giorni. Lascia infatti intendere che ogni atteggiamento soggettocentrico, come quello caratterizzante la metafisica occidentale, è essenzialmente antimusicale, così come antimusicale è qualsiasi teorizzazione che pretenda di descrivere la pratica musicale e la fruizione estetica della musica senza cautelarsi criticamente dall’uso ingenuo di parole-trappola come “tecnica”, “mente” “corpo”. Si tratta di termini desemantizzati, irrigiditi in un ristretto significato univoco e dogmatico, che vanno invece risemantizzati, “sempre di nuovo”, affinché possano ritrovare la loro plurivocità originaria.
«Questo gesto fenomenologico iniziale volto alla risemantizzazione del linguaggio è estremamente importante per ritrovare infatti la nostra armonia originaria tra razionalità e corporeità per ritrovare le nostre radici, per riscoprire le ragioni del corpo, per pensare nel corpo. Insomma per realizzare una metamorfosi apportatrice di benessere». [10]
Questi aspetti sono stati a me sconosciuti fino a che non ho incontrato Giulia Cremaschi Trovesi, un poco per caso, su consiglio della mia tutor Ada Franchi.
Nella figura della fondatrice della musicoterapia umanistica e nelle sue parole ho colto la profondità dello sguardo verso la complessità, che caratterizza il linguaggio comune e quello musicale.
Per lo scarso approfondimento nel mio percorso scolastico in campo musicale, inizialmente mi sono sentita molto lontana dal coglierne il collegamento con il dentro dell’uomo.
Secondo la logica degli studi scolastici, la musica è frutto di pensiero, calcolo, combinazioni, ricerca di intervalli e sonorità particolari. Non mi ero posta il problema di come al di fuori dall’ambito accademico, l’ascolto intimo e intenzionale della musica fosse in grado di generare forti emozioni.
Nel testo di Steven Mithen, quest’aspetto viene ampiamente trattato e John Blacking, afferma che la spiegazione di ciò va cercata «… nel fatto che nella musica,a livello di strutture profonde, esistono elementi che sono comuni alla psiche umana, anche se non traspaiono dalle strutture di superficie». [11]
Mi è sembrato stimolante non solo conoscere come si potesse sviluppare questo rapporto (musica e profondo dell’uomo), ma anche la sua applicazione concreta nel contatto con la sofferenza e la disabilità. Grazie al tirocinio presso lo studio A.P.M.M. (Associazione Pedagogia Musicale e Musicoterapia) di Giulia Cremaschi Trovesi, ho potuto vivere e condividere questo pensiero, che mi ha portato in primo luogo a riflettere su me stessa e sul posizionamento all’interno di questa filosofia e mi ha condotto verso l’accettazione incondizionata dell’altro non come diverso ma come persona e risorsa. Quest’ultimo principio si traduce in musicoterapia umanistica nella sospensione del giudizio; uno degli aspetti principali che esprime l’importanza dell’approccio fenomenologico, che caratterizza questo modello.
Mi si è presentata inoltre, l’opportunità di conoscere e osservare i bambini che frequentano lo studio A.P.M.M.
Tutto ciò, mi ha quindi permesso, di ricostruire e analizzare questo percorso attraverso il lavoro di tesi, focalizzandomi sul linguaggio: ho cercato di approfondire e confrontare i presupposti teorici, osservare gli aspetti rilevanti, e valorizzare l’esperienza pratica approfondendo le storie di due bambini.
Coloro che hanno inciso profondamente sulle mie motivazioni e sul mio tipo di sguardo, sono proprio i bambini con diversi tipi di disagio che frequentano lo studio A.P.M.M.: autismo, sordità, disturbi del linguaggio, sindromi particolari ecc…. .
Due di loro che nella tesi ho chiamato Enrico e Mirco,hanno vissuto nel silenzio fino ai 6 anni e secondo le diagnosi non avrebbero più potuto aprirsi al mondo del linguaggio.
Di fronte a me ho visto invece, due bambini che non solo parlano, ma cantano, ridono, giocano, sono “con gli altri”, mostrano l’impegno e la voglia di scoprire e d’imparare.
Penso siano bambini meravigliosi che nonostante le loro difficoltà abbiano la così detta “marcia in più”, ovvero la motivazione profonda che li ha spinti alla vita e che a permesso loro di superare muri insormontabili e smentire parole inoppugnabili .
Tant’è che ad oggi per i due bambini ci sono gli esiti: l’uno dimesso dal servizio di NPI(Neuro Psichiatria Infantile), per l’altro vi è l’emissione di un nuovo testo diagnostico dove è stata tolta la parola autismo.
Da qui la possibilità di approfondire il tema del linguaggio e il motivo del titolo di tesi: Il desiderio della parola (La natura fenomenologica del linguaggio).
Entrando nel vivo dell’approccio in musicoterapia umanistica e approfondendone i presupposti teorici ho colto che solo questi potessero spiegare la realtà che stavo vivendo.
Per questo ho preso le distanze dallo strutturalismo linguistico e mi sono avvicinata alla fenomenologia.
Se con le parole di Carlo Sini la conoscenza passa attraverso il riconoscimento, ciò si traduce nella pratica in musicoterapia umanistica nella risonanza corporea, dove un corpo che vibra mette in vibrazione un altro corpo atto a vibrare. La cassa armonica del pianoforte a mezza coda, infatti, rievoca il Grembo Materno (G. Cremaschi Trovesi lo chiama “la prima orchestra”) dove siamo ininterrottamente cullati da ritmi –suoni – movimento .
La memoria di ogni essere umano inizia proprio a partire dal coinvolgimento della risonanza corporea nel Grembo Materno e non c’è suono senza una memoria di suoni. Ogni bambino ripercorre il cammino compiuto dall’umanità in modo soggettivo.
È in questo senso che ho pensato di collegare la musica al risveglio di cui parla il poeta Penna, come ritorno all’origine della vita (il Grembo Materno) e come energia che conduce a percepire il proprio corpo in maniera vitale e profonda.
Così come dovremmo considerare che il linguaggio dall’antichità ha subito molte trasformazioni per giungere a noi, a riprova di ciò il testo di Kallir Segno e disegno. Psicogenesi dell’alfabeto, altresì i bambini costruiscono e modificano il linguaggio con le esperienze che vivono, anch’esso quindi percepito e ricreato.
Il linguaggio verbale quindi, lungi dall’essere qualcosa di abitrario, nasce nel dialogo.
La musica allo stesso modo viene spesso legata al mondo del divertimento, dell’irrazionale, ma attraverso il dialogo sonoro e l’improvvisazione clinica è l’espressione delle emozioni per mezzo di giochi sonori tutt’altro che casuali.
Con le parole di Giulia Cremaschi Trovesi, il rapporto uomo suono (che è uomo nel mondo la Grande Orchestra) è stato lo stimolo per il generarsi del linguaggio verbale.
La voce è in continuo movimento per le emozioni che sono alla base della comunicazione, senza un’azione comune non c’è relazione se non c’è relazione non può sorgere il dialogo.
In questo senso la costruzione del rapporto di fiducia in musicoterapia si basa sull’epochè fenomenologica, sospensione del giudizio, accettazione incondizionata, poichè il suono giunge, avvolge, coinvolge il bambino senza chiedergli nulla in cambio, nel “fare musica”, nell’alternanza di silenzi, suoni, ritmi, si creano attimi di attesa, di ascolto, da cui il musicoterapeuta costruisce in modo soggettivo il dialogo. Il linguaggio del corpo del bambino, il non verbale, è la Partitura Vivente.
La fiducia, l’accettazione incondizionata, la valorizzazione del gesto portano il bambino a sentirsi libero di esserci, riscoprire il gioco nel senso profondo di gioia, la voglia di stare con gli altri e di scoprire fa sorgere il desiderio del linguaggio verbale.
Ritornando ai versi e al monito del poeta Penna : «La vita è ricordarsi di un risveglio» [12]; si rivela importante ricordare che il motore del nostro esserci è la motivazione che nasce dalle emozioni autentiche.
Giunta alla conclusione del percorso mi chiedo: quale motivazione più autentica del desiderio?
Grazie all’incontro con la musicoterapia ho trovato la risposta nei bambini e nella fenomenologia uno strumento di pensiero che aiuta a non lasciarsi travolgere dalla frenesia del fare quotidiano, del dare per scontato, bensì a mettere in parentesi i giudizi e non ciò che ispira, le motivazioni.
Per leggere la complessità della nostra società sembra più che mai necessario riscoprire il valore originario del linguaggio come di ogni cosa che ci circonda, per questi motivi come risposta al monito del poeta mi sento di proporre lo sguardo fenomenologico.

Note

[1Sandro Penna, Confuso sogno, Aldo Garzanti Editore, Milano, 1980, p.133.
Questo articolo è un estratto del lavoro di tesi: Il desiderio della parola. La natura fenomenologica del linguaggio, relatore Professor Gianluca Bocchi e Professoressa Giulia Cremaschi Trovesi. A breve il suddetto lavoro verrà approfondito e pubblicato, per informazioni scrivere a gloriadiffidenti@libero.it

[2Sandro Penna, Confuso sogno, Aldo Garzanti Editore, Milano, 1980, p.133.

[3Giulia Cremaschi Trovesi, Mira Verdina, …dal suono al segno…. , Prefazione di Carlo Sini, Edizioni la meridiana, Milano, 2000, p.6.

[4Carlo Sini, Idoli della conoscenza, Raffaello Cortina Editore, 2000.

[5Giulia Cremaschi Trovesi, Leggere scrivere e far di conto, Armando Editore, Roma,2007, p.295.

[6Zygmunt Bauman Homo consumens, Traduzione di Sergio Minucci, GLF editori, Roma, 2001, p.46.

[7Articolo di Henaff, Dono e riconoscimento, art.

[8Luigia di Pinto, Metamorfosi e musica in fenomenologia, Edizioni Giuseppe Laterza, 2002, p.5.

[9Luigia di Pinto, Metamorfosi e musica in fenomenologia, Edizioni Giuseppe Laterza, 2002, p.5.

[10Luigia di Pinto, Metamorfosi e musica in fenomenologia, Edizioni Giuseppe Laterza, 2002, p.5.

[11Steven Mithen, Il canto degli antenati, Codice edizioni, Torino, 2007, p.17.

[12Sandro Penna, Confuso sogno, Aldo Garzanti Editore, Milano, 1980, p.133.

EDGAR WILLEMS: LA MUSICA È PER TUTTI

Autore: Cremaschi Trovesi Giulia

“… e quando Andrè Malraux (scrittore e politico Parigi, 1901, Créteil 1976) afferma che l’occidente si è separato dal Cosmo, noi possiamo dirgli che questo non vale per la musica e per l’educazione musicale, così come noi la intendiamo. Allo stesso modo non deve stupire che fra i più grandi educatori dei secoli passati, molti hanno scelto la musica come mezzo educativo per eccellenza….” 
Quando per gli orientali, come per i cinesi, per esempio, “la musica è il legame fra il cielo e la terra”, bisogna capire che la musica è, nello stesso momento, profondamente spirituale e materiale; materiale a causa della vibrazione fisica del suono e spirituale perché la musica, per loro, è di natura metafisica, cosa difficile da ammettere per gli occidentali. D’altra parte non bisogna perdere di vista che la musica degli orientali è melodica, essa è legata all’affettività, alla sensibilità emozionale…. È in questa stessa non conoscenza della natura delle razze, più dinamiche, emotive o intellettuali, che si nasconde la potenza sociale e morale della musica presso i Greci. È un grave errore immaginare il popolo greco come gli occidentali. Il mentale aveva meno potere su di loro; l’emotività dominava.
Quando Rahindranath Tagore (ThàKhur, noto anche come Gurudev, India 1861 – 1941) dice che “la musica è la forma più pura fra le arti e, per conseguenza, l’espressione più diretta della bellezza”, egli mette la musica al di sopra della poesia e della letteratura che gli erano più famigliari. 
C’è Ynayat Khan (India 1882 – 1927) che dice che “la musica è l’arte delle arti e la scienza delle scienze”
Baulelaire (Parigi 1821 – 1867), anche lui poeta riunisce questi due poeti orientali quando annuncia “la musica prima di ogni cosa” (da “lI primato della musica fra le arti” Edgar Willems, Bolletin de l’association internationale d’èducation musicale, 1975). 
Riporto dallo stesso bollettino, dal resoconto sul Congresso svoltosi presso la Sala del Conservatorio “G. Verdi” di Torino nei giorni dal 29 luglio al 5 agosto 1975, si legge “…Infine una grande parte della giornata di mercoledì era riservata a tre lezioni dedicate a tre classi della scuola media di Bergamo, guidate da Giulia Cremaschi Trovesi. Le qualità di queste presentazioni davano la testimonianza di un lavoro in profondità compiuto dai nostri amici italiani sulla via tracciata dal prof. Willems”.

Ho ripreso, traducendo in italiano, le parole pubblicate sui bollettini dell’associazione Willems. Dal 1975 sono trascorsi molti anni. È facoltà riservata a noi esseri umani, quella di far rivivere gli eventi, attraverso la memoria. Nell’anno 1974, a Lyon, il prof. Jacques Chapuis mi affidò l’incarico di essere presente, in Italia, a Torino, con alunni italiani, al congresso Willems. Così decisi di portare gli alunni della scuola media statale di Almeno S. Salvatore, paese posto all’inizio di una delle valli bergamasche. A che cosa sarebbero andati incontro gli alunni della scuola media statale di un paesino di una città di provincia, messi a confronto con gruppi di allievi di corsi privati di scuole di musica svizzere, francesi, portoghesi, tedesche? Gli scolari della scuola statale sarebbero andati incontro ad un successo tale che non fu possibile procedere con le attività congressuali programmate dopo le loro lezioni aperte. Non avrei potuto immaginare che Edgar Willems, dopo aver assistito alle nostre lezioni aperte, avrebbe voluto parlare a lungo con me. Non era facile parlare con il maestro, porgli delle domande, dialogare con lui. Dopo le tre lezioni aperte al pubblico (alunni della classe prima, seconda e terza media) al Congresso di Torino, fu Willems, il maestro, che venne a cercare me. Era rimasto colpito perché avevo portato in pubblico gli studenti con le loro evidenti e differenti realtà socio-ambientali-culturali. Gli alunni di una scuola pubblica avevano conseguito un livello di conoscenze musicali superiore a quello degli alunni stranieri provenienti da scuole private. Mi disse una frase che è risuonata nella mia memoria, negli anni, in modo sempre più profondo: “Vous avez compris: la musique est pour tout le monde” (Lei ha capito; la musica è per tutti).

Vous avez compris: la musique est pour tout le monde

Mi aveva riservato un fuoco di fila di domande: “Perché avevo portato alunni “difficili”? Perché i flauti dolci? Perché la diteggiatura tedesca dei flauti? Perché il doppio pentagramma se, per i flauti dolci, ne sarebbe bastato uno? Quali obiettivi mi ponevo improvvisando al pianoforte per accompagnare gli alunni? Quali criteri musicali seguivo nell’improvvisare? Perché non ero schematica sulle risposte vocali o strumentali improvvisate dagli alunni? Quali difficoltà avevo incontrato nel fare attività di movimento con alunni in età pre-adolescenziale? Quali obiettivi mi ponevo nei confronti degli alunni? La cura per la loro crescita e formazione o l’esclusiva attenzione all’apprendimento della musica?….”
Il maestro si era rivolto a me, giovane insegnante, per dialogare con me. Sembrava che ci conoscessimo da sempre. Mi sottolineò il fatto che avevo messo in luce i valori formativi della musica con alunni provenienti anche da ceti sociali disagiati, svantaggiati. Gli dissi che da qualche anno avevo incominciato ad avventurarmi nel mondo dei bambini o ragazzi con handicap. Il maestro mi incoraggiò a procedere sulla strada della musicoterapia. Il maestro, che aveva ormai ottantacinque anni, mi disse qualcosa di personale che deve rimanere fra lui e me. Fu Maestro, nel senso educativo, socratico, maieutico del termine. Nel rivolgermi le sue domande, nel rispondere alle mie domande, egli mi diede l’insegnamento più profondo che avrebbe potuto darmi: Edgar Willems mi esortò a procedere sulla strada della musicoterapia che, per lui, non era più percorribile. Mi raccomandò di non dimenticare che avrei sempre potuto contare su me stessa. Mi fece vivere il valore della reciprocità docente/discente.

Quando, nel 1976, portai al Congresso Willems, svoltosi presso il Monastero di Niederalteich (Monaco di Baviera), gli alunni di una terza elementare, il maestro era ammalato. Non lo avrei mai più incontrato. È stato maestro anche in questo, nel rapportarsi al valore della vita che comprende la morte. I suoi insegnamenti hanno continuato a rinnovare in me la creatività, nella mia pratica giornaliera.

Che cosa ho appreso, che cosa mi ha lasciato Willems?

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Giulia Cremaschi Trovesi

Procedo a partire dagli insegnamenti fondamentali: avere fiducia in me stessa, saper ascoltare gli alunni anche nelle condizioni più difficili (rapporto docente/discente, l’apprendimento è reciproco), non dare nulla per scontato, non smettere di interrogarsi sul proprio agire, cercare il senso nelle azioni, nei comportamenti degli allievi (in particolare nei comportamenti comunemente giudicati negativi). 
Proseguii sulla strada dell’insegnamento nella scuola statale (avevo vinto il concorso a cattedra per l’insegnamento di “Musica e canto” presso l’Istituto Magistrale) e dell’esplorare il linguaggio dei suoni con persone (bambini, ragazzi), come si diceva allora, handicappati (psicosi, autismo, sordità, sindromi varie, ecc.). I due ambiti, quello educativo e terapeutico, si congiungevano perché nel 1974, con la legge 104, iniziò in Italia il cammino dell’inserimento e dell’integrazione scolastica degli alunni con handicap. 
Una serie di coincidenze mi portò ad intraprendere una collaborazione che sarebbe durata per vent’anni, con l’Istituto di Audiologia dell’Università degli Studi di Milano.
Gli studi di Willems sull’orecchio musicale, a contatto con i bambini sordi, prendevano dimensioni sempre più vaste. Mi ponevo domande su domande alle quali nessuno era in grado di rispondere. Come avviene l’ascolto? Il pianoforte a coda era quanto di più affascinante potesse esistere per i bambini sordi. Lo abbracciavano, si ficcavano sotto, non si stancavano di stare attaccati allo strumento. Così incominciai a farli stendere o sedere sopra alla cassa armonica del pianoforte a coda. Più facevo pratica, più sorgevano domande. Willems diceva che, alla base della musica, c’è l’acustica. È proprio così. Non si tratta dell’acustica studiata per gli esami in Conservatorio bensì dell’interrogarsi attraverso la fisica acustica e psicoacustica. 
Socrate sosteneva che era la stessa cosa insegnare la matematica, la letteratura, la filosofia, la musica, le arti. Willems condivideva questo pensiero. Ripresi a studiare l’acustica su testi che non conoscevo. Conobbi il maestro Pietro Righini che volle condividere di persona le esperienze con i bambini sordi. Hanno ragione i bambini sordi: le onde sonore investono i nostri corpi, secondo le leggi fisiche della risonanza (acustico-corporea e uditiva) messa in moto dai suoni fondamentali e armonici. (Giulia Cremaschi Trovesi “Il corpo vibrante” ed. Scient. Ma.Gi. Roma 2000)

Suoni – Ritmi – Movimento
Gli strumentini idiofoni

Le connessioni fra suoni – ritmi – movimenti assumevano un senso sempre più profondo. Connettere suoni – ritmo – movimento vuol dire avventurarsi alla scoperta del percepire, della corporeità, dell’impossibilità di separare corpo – mente. L’ascolto investe il corpo attraverso la coordinazione, l’ordine, il movimento creando emozioni. Le attività con i bambini sordi erano le stesse che mettevo e metto in atto con qualsiasi bambino. I bambini sordi, a contatto diretto con i suoni, incominciavano ad aprirsi al linguaggio verbale, in modo spontaneo. La risonanza non bastava. Utilizzavo gli oggetti sonori, quelli che avevo visto nei corsi Willems. Si tratta di oggetti sonori? Si tratta di strumenti musicali idiofoni adatti alle mani infantili. 
L’intreccio si arricchiva sempre di più. Alle lezioni con i bambini, a Delémont, avevo visto l’utilizzo degli oggetti sonori per la discriminazione uditiva. Ora mi accorgevo che discriminare era soltanto una parte, una piccola parte delle possibilità da esplorare. Il percorso era molto più ampio e profondo. Ascoltare, per i bambini, non importa se udenti o sordi, normali o con handicap particolari, passa attraverso il manipolare questi strumentini sonori e colorati. Manipolare, guardare, scuotere, perfino portare alla bocca, confrontare, scegliere fra molti oggetti sonori è la modalità infantile per esplorare, cogliere, apprezzare, ricordare, memorizzare, riconoscere, imitare con la voce le differenze fra i timbri sonori. Gli strumenti idiofoni conducono verso la relazione originaria fra i timbri sonori ed il farsi del linguaggio verbale. Gli strumenti idiofoni conducono verso l’apprezzamento della relazione fra ontogenesi e filogenesi, fra suono articolato con la voce e segno scritto. Si apre la strada verso l’epistemologia della musica, la strada delle relazioni fra suoni, ritmi, movimento, nascita spontanea della parole, ordine, misura, numerazione.

Musicoterapia, arte della comunicazione
Edizioni Scientifiche Magi, Roma, 1996

Scuotere uno strumento idiofono implica un ritmo. In ogni nostro gesto, in ogni nostro respiro c’è un prima e un dopo
Il prima e dopo è il ritmo. 
L’esperienza del bambino, qualsiasi bambino, udente o sordo, con particolari difficoltà di comportamento, relazione, apprendimento ecc., passa attraverso la risonanza corporea (connessa con improvvisazione clinica al pianoforte, il modo diretto, creativo, immediato di dialogare con chiunque), la manipolazione, il guardare e, spontaneamente, far sentire la sua voce (suoni onomatopeici). In termini fenomenologici stiamo parlando di “essere nel mondo”, di “esserci”, e, attraverso l’improvvisare sulla misura di ogni situazione, di “epoké” (superamento del giudizio). Timbro, altezza, durata, intensità dei suoni, sono fusi in dialoghi musicali estemporanei che, nel tempo, conducono verso il movimento che si fa voce, parola, verso i passi che conducono alla misura, all’ordine del numero. Il non – verbale è origine del verbale. Il percepire (dal latino, per – capio, ossia prendo attraverso me stesso) passa attraverso il cinestesico (movimento), l’acustico (la risonanza corporea), l’uditivo, il visivo, la propriocezione (quello che avverto dentro di me), le emozioni, la condivisione. È un attraverso che attraversa la corporeità che non può essere considerata come somma delle parti ma il sistema dove ogni dettaglio, ogni gesto minimo rinvia al tutto (pars pro toto). Ogni attività umana accade nello spazio – tempo. Willems era lungimirante. Per lui era importante cogliere il valore dell’educazione musicale come formazione della persona senza lasciarsi troppo attrarre dall’andare verso la musica, in senso stretto.

RISVEGLIARE LA DINAMICITÀ DEL BAMBINO

Ricordo una delle frasi di Willems durante una delle sue conferenze a Delémont: “Il faut eveiller la dynamicité de l’enfant!”. Quale insegnante sarebbe d’accordo con questa indicazione? I bambini devono stare fermi nei loro banchi. Che cosa intendeva Willems con il termine dinamicità? Proviamo a pensare a quanto si parla, in questo momento storico, di ADHD (Attenction Deficit Hyperactivity Desorder), ADD (Attenction Deficit Desorder), LD (Learning Desorder). Un bambino affetto da questi disturbi, secondo la scienza, va trattato farmacologicamente. Negli USA ci sono studi che dimostrano i danni derivanti dall’assunzione continuata, a partire dall’età precoce, di psicofarmaci (peraltro dichiarati innocui).
Willems parlava dell’importanza di risvegliare la dinamicità dei bambini. Aveva ragione. Anche un bambino iperattivo va condotto, attraverso il suo modo di muoversi, verso la consapevolezza del suo movimento, dei suoi gesti, per riuscire a scoprire in che cosa consiste l’ascolto. È un percorso di natura educativo-terapeutica. È un bisogno in costante aumento nei bambini di queste generazioni. L’iperattività va condotta verso la sua origine, verso il suo essere vivacità, vitalità infantile.

Willems non si stancava di ritornare a: fisico/affettivo/mentale. Ritmo/fisico; Melodia/affettivo; Armonia/mentale. I suoi tracciati sulla lavagna sono ancora presenti nella mia memoria. In altre parole Willems raccomandava ai musicisti di accorgersi che quello che accadeva, sul piano della relazione interpersonale, attraverso il percorso dell’educazione all’ascolto. Il ritmo, pertanto l’utilizzo di strumenti a percussione, a partire dai legnetti sonori, è l’aspetto fisico, dinamico della musica. La melodia parla al mondo delle emozioni. La voce è, per sua natura, canto; l’aria inspirata si trasforma in voce. L’armonia è il prodotto dello studio dell’uomo. La storia della musica insegna che l’uomo arriva all’armonia attraverso la polifonia. Armonia e polifonia sono già presenti nei suoni armonici. 
La lettura di Willems sui rapporti ritmo – melodia – armonia consente di guardare all’evoluzione dei modi di fare musica nei secoli in modo profondo.

Edgar Willems aveva le idee chiare sull’educazione musicale vivente che proponeva. Ascoltai in una conferenza, sempre a Delémont, come Willems rapportava le sue proposte di educazione musicale con gli altri metodi presenti nel mondo. Aveva le idee molto chiare sulla differenza fra educazione e addestramento. Era un uomo che, come si suole dire, sapeva dire: pane al pane e vino al vino. Nell’esprimere il suo pensiero sul palcoscenico, nelle sue conferenze, Willems era espressivo con tutto se stesso. La sua gestualità era intensa, comunicativa. Tutta la sua corporeità era in movimento con il senso delle frasi che esprimeva. Siamo lontani dall’immagine di un conferenziere seduto con un microfono in mano, che legge il suo testo scritto. Willems, mentre parlava, ascoltava la presenza dell’uditorio. Sapeva tenere il pubblico in mano, non concedeva attimi di distrazione, sapeva servirsi dell’ironia con intelligenza. Non stava fermo in un punto del palcoscenico, si spostava, camminava, guidava l’attenzione dell’uditorio. Sapeva collocare i termini tecnici con l’espressività dei suoi gesti, con l’intonazione della voce, con i momenti di silenzio, di attesa, i momenti necessari al pubblico per comprendere il senso di una frase. Pur essendo belga fiammingo aveva studiato la lingua francese che utilizzava con la calma e la precisione di chi è consapevole di esprimersi in un’altra lingua. In una conferenza spiegò il senso della presa di coscienza per le attività educative, attraverso se stesso, impegnato ad esprimersi in una seconda lingua, non nella sua lingua madre. Verbale e non – verbale, in Willems, erano una cosa sola. Educare non è addestrare. Vogliamo capirne il senso? Guardiamo a questi due modi di rappresentare la stessa cosa.

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La percezione visiva e quella uditiva non coincidono.
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La percezione visiva e uditiva sono congrue fra loro.

Socrate ci parla dei contrari: bene / male, bello / brutto, alto / basso, veloce /lento ecc…
La durata dei suoni pone a confronto lungo e breve. I primi che utilizzano questi termini, per quanto ci è dato di sapere, sono i Greci. Come far vivere ai bambini le differenze fra i suoni, a partire da quelli che si possono ascoltare in natura? Willems è stato molto chiaro al proposito. Chi non conosce, non vuole conoscere o crede di conoscere l’opera di Willems, continua a ricorrere alle partiture alternative e a confondere il timbro del suono con la durata del suono. Chi non conosce l’opera di Willems crede di poter spiegare i rapporti di durata fra i suoni, con le parole.

I due esempi riportati possono essere esplicativi per chi vuole entrare nel merito del percepire il concetto di durata di un suono ed il concetto di rapporti di durate. Quando ci rivolgiamo ai bambini dovremmo ricordare che percepire è un gesto complesso che investe gli organi di senso (sinestesia), la propriocezione, la cinestesia (apprendere attraverso il movimento). Ciò che vedo dovrebbe coincidere con quello che sento, che ascolto, che faccio. La comprensione della durata (come accade in natura) e dei rapporti di durata fra i suoni (come accade nella musica), conduce verso l’apprezzamento della differenza fra educare e addestrare.

Willems riconosceva il valore educativo nelle proposte di Maria Montessori, delle sorelle Agazzi, nutriva una grande stima per Laura Bassi e riconosceva un maestro in Dalcroze. Vedeva in questi pedagogisti le finalità educative, ossia il prendersi cura dei bambini per farli crescere e maturare interiormente, attraverso la pratica musicale. 
Nei confronti di Orff, Kodaly, Suzuki vedeva musicisti impegnati nell’insegnare la musica ai bambini. 
Ci troviamo di fronte a due modi differenti di guardare alla musica in relazione all’infanzia. 
Willems non voleva che la sua opera diventasse un metodo. Lo disse chiaramente: “Vuoi il metodo? Eccoti i libri. Vuoi l’educazione musicale? Lavoriamo insieme”. Era un uomo dal carattere forte, convinto delle sue scelte, non disposto a compromessi. 
In Italia Willems ha trovato poco ascolto. La stragrande maggioranza dei professori di musica ha scelto di insegnare le durate dei suoni con i “Ta, ta, ti, ti ,ti … “ di Kodaly. Riporto questo esempio per far comprendere l’intelligenza pedagogica di Willems. Entrare nel mondo dei rapporti di durata fra i suoni è uno studio che impegna i teorici della musica per circa ottocento anni (chi è incredulo vada a verificare la storia della musica su testi attendibili). Abbiamo i segni ritmici precisi sulle partiture circa nel periodo di Antonio Vivaldi. Ottocento anni sono sufficienti a indicare che comprendere i rapporti di durata fra i suoni non è un semplice meccanismo ma consiste nel saper frazionare il tempo che passa in parti uguali. Per compiere questi passi occorre pensare e impegnarsi in profondità. Per fare memorizzare ai bambini “Ta, ta, ti, ti ,ti …”basta ben poco.

Lo stesso problema si affaccia per condurre i bambini alla lettura dell’altezza dei suoni. Il flauto a coulisse viene generalmente vissuto come un gioco. Ma il gioco è molto più serio di quello che si possa pensare. Riporto le parole di Guido d’Arezzo: “Se vuoi incorporarti nella memoria i movimenti di ascesa e discesa del suono della voce”. Oggi non si rifiuta più di pensare che il corpo ha le sue memorie, che la voce si forma nel corpo, che le emozioni modificano l’intonazione della voce. Willems lo aveva capito. Willems aveva applicato il principio della denominazione dei segni scritti e l’intonazione degli intervalli, già utilizzato da Guido d’Arezzo con l’inno di S. Giovanni, nel proporre le canzoni sugli intervalli. 
L’intuizione geniale di Guido d’Arezzo, consistente nel dare un nome ad ogni segno scritto che rappresenta l’altezza dei suoni, ossia i di movimenti di ascesa e discesa nelle cavità risonanti corporee, viene ancor più valorizzata dalle conoscenze delle neuroscienze. I processi di imitazione dei suoni ascoltati, della riproduzione, della scrittura, sono connessi tra loro. I neuroni mirror sembrano essere alla base alla base di queste connessioni. Il principio utilizzato da Willems, con le canzoni sugli intervalli, favorisce il percorso naturale per lo sviluppo dell’orecchio armonico in ogni bambino. I neuroni mirror (o neuroni a specchio), sembrerebbero i responsabili dell’abilità umana di imitare. Il principio dell’imitazione è il primo dei principi sui quali si fonda il fare musica, a partire dalla notte dei tempi. (Giulia Cremaschi Trovesi “Leggere, scrivere, far di conto” Superare i problemi di apprendimento con la musica. Armandoeditore, Roma 1007)

Il Movimento

Willems ci ha lasciato i suoi brani dedicati al movimento con i bambini. Passi, saltelli, corse sono fondamentali nel gioco infantile. Attraverso una pratica musicale che pone in relazione suoni – ritmi – movimento – frasi musicali – armonia, i bambini mettono in atto ed evolvono le loro abilità naturali. Nel caso in cui, come accade con bambini affetti da PCI (paralisi cerebrale infantile, anche in casi di bambini con nascita gravemente prematura, di plurihandicap), la relazione suoni – ritmi – movimento, attraverso l’improvvisazione al pianoforte e la risonanza corporea, viene favorita in modo sorprendente. La risonanza corporea conduce verso un rilassamento spontaneo nei bambini con PCI (anche con plurihandicap). Il rilassamento è la condizione per l’ascolto che, come conseguenza, favorisce il farsi di movimenti nuovi, intenzionali.

Gli studi in musicoterapia umanistica dimostrano che Willems ha avuto ragione su un punto fondante dell’educazione musicale.

“Il suono è dentro all’uomo, prima che attorno all’uomo!”

Il suono è dentro all’uomo nel modo più naturale che si possa pensare. Il grembo materno è la Prima Orchestra. La Terra è la grande orchestra. L’ordine ritmico è l’esercizio di ogni attimo di vita prima di nascere. Nel rapporto musica – bambini, non importa se si tratta di musicoterapia o di educazione musicale, possiamo condurre i bambini a ritrovare un ordine già conosciuto. Traumi, lesioni, sindromi, ambienti socio-culturali disagiati o altro ancora possono creare delle interferenze. Attraverso l’improvvisazione e la risonanza corporea è possibile che il bambino ritrovi questo ordine. Questo vale anche per i bambini iperattivi, disturbati nel comportamento, nell’apprendimento, nella relazione, perfino con i bambini autistici. Il suono è la relazione per eccellenza.

Edgar Willems era profondamente intuitivo. La sua conferenza sulla priorità della musica sulle altre arti mette in luce che il termine priorità non indica qualcosa di più importante bensì qualcosa che arriva prima. La musica ha questa priorità perché è la trama che intesse la vita ancor prima della nascita.

È arduo, per i professori di musica, accettare questo perché troppo spesso sono attaccati ai loro studi, al considerare la musica come arte separata dalle altre arti, come linguaggio diverso dagli altri linguaggi. Nella sua conferenza Willems proseguì nell’esposizione del tema sulle arti, in modo logico e consequenziale. La voce, i suoni, i ritmi sono all’origine del movimento. Suoni, ritmi e movimento non possono essere separati. Suono e movimento procedono insieme. Senza musica non nasce la danza. Senza il movimento non sorgono i gesti della pittura e delle arti figurative in generale. Senza ritmo non si giunge alla misura, al costruire. Senza il respiro non ci può essere la voce, non potrebbe nascere la parola e, con essa, le arti narrative, poetiche, liriche, drammatiche, il teatro.
“…il suono è generato dal movimento giacché esso appartiene alla categoria delle cose che si realizzano in successione di tempo”. “…non esiste successione senza movimento. “…il tempo è la misura del suono….il tempo è anche misura del movimento” (Filippo da Vitry “Ars nova notandi” sec. XXIII).

Queste citazioni dimostrano che tutto è già in noi. Non esiste luogo senza la presenza di onde sonore, sulla faccia della terra. Senza la presenza di onde sonore saremmo privi di informazioni, della vita stessa. 
Willems insisteva sui livelli di comprensione: fisico, affettivo, mentale. In altre parole ci troviamo di fronte ad uno sperimentare, alle emozioni che ne scaturiscono, ad un processo di presa di coscienza, apprendimento, astrazione.

Saper comprendere in che cosa consiste la distinzione fra addestramento e educazione vuol dire cogliere il valore di una frase sulla quale Willems ha a lungo insistito durante una delle sue conferenze: “Nulla di più assoluto del relativo”. Proviamo a pensare in che cosa consiste condurre i bambini a comprendere il senso dei rapporti di durata fra i suoni o l’impartire loro è “Ta, ta, ti, ti ,ti …”. Nel primo caso l’insegnante – educatore accompagna ogni bambino a vivere l’esperienza del confronto fra durate diverse utilizzando strumenti a percussione, i giochi di movimento, rispettando e favorendo i suoi tempi di maturazione; nel secondo caso non c’è proprio niente da capire, basta ripetere a memoria. La scuola procede attraverso i riflessi condizionati (addestramento) anche con le altre materie di studio. Chi ne soffre di più, forse, è la matematica. Non si tratta di un esempio fatto da me; l’esempio è stato fatto da Willems che, come ho già detto, vedeva lungo ed operava in profondità.

Articolo pubblicato sul sito www.cedim.org

DSA – PROVIAMO CON LA MUSICA? PARTE PRIMA

Autore: Cremaschi Trovesi Giulia

Prima pagina del “Giornale per bambini” con il terzo capitolo de “Le avventure di Pinocchio” (14 luglio 1881)

PARTE PRIMA: SERVE ANCORA LA PEDAGOGIA?

La scuola dell’obbligo, per definizione, accoglie tutti i bambini. Tutti i bambini sono pronti per essere attenti, per ascoltare, per applicarsi, per imparare? Se così fosse non sarebbe sorta la pedagogia. In ogni classe, in particolare dalla classe prima della scuola primaria, gli insegnanti si aspettano di incontrare bambini con particolarità nel comportamento, nel modo di relazionarsi, con difficoltà nell’attenzione e, per conseguenza, nell’apprendimento. Chi è insegnante sa che cosa deve insegnare, non sa come riuscirà ad insegnare. I programmi scolastici non possono diventare delle istruzioni per l’uso. Gli insegnanti sanno che ogni proposta di apprendimento va verificata, anche più volte. Nei processi pedagogico-educativi è tutto un gioco di qualità dove, per qualità, si intende la relazione interpersonale. L’insegnante si occupa di scoprire che cosa ha capito ogni bambino ed è pronta a trovare idee, indicazioni, accorgimenti che consentano di procedere in modo efficace. I bambini con difficoltà di apprendimento ci sono sempre stati. La novità attuale consiste nel fatto che queste difficoltà oggi sono state trasformate in danni organici. Chi sono gli autori di questa alchimia? 
Chi vuole documentarsi può fare un giro in Internet cercando la voce “Giù le mani dai bambini”. Il lettore trova documentazioni favorevoli e contrarie al DSA. Anche gli psichiatri sono spaccati in due: favorevoli o contrari. Ecco il vantaggio di poter accedere ad una documentazione oggettiva. Se le difficoltà nel comportamento, nel modo di relazionarsi, con difficoltà nell’attenzione e, per conseguenza, nell’apprendimento sono danni organici, allora diventano di competenza clinica, decade quella pedagogico-educativa, ossia scolastica.

Leggiamo dal testo del MIUR:
“Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Dipartimento per l’Istruzione Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione”
Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento”

1. I DISTURBI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO
I Disturbi Specifici di Apprendimento interessano alcune specifiche abilità dell’apprendimento scolastico, in un contesto di funzionamento intellettivo adeguato all’età anagrafica. Sono coinvolte in tali disturbi: l’abilità di lettura, di scrittura, di fare calcoli. Sulla base dell’abilità interessata dal disturbo, i DSA assumono una denominazione specifica: dislessia (lettura), disgrafia e disortografia (scrittura), discalculia (calcolo). 
Secondo le ricerche attualmente più accreditate, i DSA sono di origine neurobiologica; allo stesso tempo hanno matrice evolutiva e si mostrano come un’atipia dello sviluppo, modificabili attraverso interventi mirati.

“Leggere, scrivere, far di conto” [1], sono parole che leggiamo in Pinocchio. Chi ha difficoltà nella lettura è dislessico, chi ha difficoltà nella scrittura è disgrafico, chi ha difficoltà nell’ortografia è disortografico, chi ha difficoltà nel fare i calcoli è discalculico. Non viene citata la dislalia, ossia la difficoltà ad esprimersi correttamente con le parole. Non vengono citate nè la disprassia, che potrebbe essere correlata con la disgrafia, né la disartria, né la disfasia, definizione cliniche specifiche. Poiché queste difficoltà sono difficilmente distinguibili le une dalle altre (chi ha difficoltà a leggere probabilmente ha difficoltà anche a scrivere etc.) ecco apparire una parola nuova: la comorbilità. Soffre di comorbilità il bambino che presenta dislessia, disgrafia, discalculia, tutte insieme.

Il DSM – IV distingue fra DSA e ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder). Negli U.S.A. sono differenziati: LD (Learning Disorder) e ADD (Attention Deficit Disorder). Gli insegnanti hanno la competenza per valutare se queste differenze, queste separazioni sono riscontrabili nella realtà:
– DSA, Disturbi Specifici dell’Apprendimento;
– ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder);
– LD (Learning Disorder);
– ADD (Attention Deficit Disorder).

Un bambino in difficoltà nell’imparare assume anche comportamenti particolari che possono variare in una gamma compresa fra l’iperattività e l’apatia. Come sta questo bambino con l’autostima? Possiamo dare un valore assoluto ai test? Da anni ed anni è stata dimostrata la necessità di prudenza nel dare un valore assoluto all’esito dei test perché troppi elementi, di natura relazionale, ne compromettono l’attendibilità.

Facciamo un tuffo nella storia. Carlo Collodi, con il suo testo “Le avventure di Pinocchio” ha ritratto un burattino che porta in sé le caratteristiche dell’alunno più svogliato e meno intenzionato ad imparare che si possa incontrare. Iperattività e scarsità di attenzione sono le sue caratteristiche fondamentali. Pinocchio ha i suoi motivi per essere così! Non ha frequentato la scuola materna, non è stato neppure un bambino piccolo. Pinocchio entra nella vita di punto in bianco, quando è già grande. Quali esperienze ha realizzato prima di allora? Non ha neppure imparato a camminare! Prova e trova l’equilibrio sui piedi, saltellando, correndo per la stanza, facendo danni, iniziando a fare dispetti. Come reagirebbe Pinocchio se fosse sottoposto ai test di valutazione, ai programmi personalizzati, ai percorsi della riabilitazione? Di lui si direbbe che è iperattivo, con deficit di attenzione, con difficoltà nell’apprendimento della lettura, della scrittura, dei calcoli, nella relazione, nel comportamento. Come sta Pinocchio con l’autostima se si fida del primo gatto che incontra? Secondo i criteri provenienti dagli USA la cura farmacologica è quanto di meglio si possa dare a Pinocchio [2]. Il nostro burattino avrebbe danni neurobiologici? La risonanza magnetica metterebbe in luce anomalie al sistema nervoso centrale (neuro) o al corpo (biologico) di Pinocchio? Questi danni avrebbero una matrice evolutiva, ossia sarebbero in grado di crescere con il passare del tempo? Questi danni sarebbero atipici rispetto allo sviluppo della norma? Questi danni sarebbero modificabili attraverso interventi mirati? Quali sono gli interventi mirati? Come si fa a tenere fermo in un banco, non solo fermo ma attento e impegnato, un burattino con l’argento vivo addosso?
Il Ministero dichiara che, nelle classi prime della scuola primaria, i Pinocchini e Pinocchietti, ossia i bambini con difficoltà nell’apprendimento, rappresentano il 20% della classe. È così solo da oggi? Ebbene, perché mai Carlo Collodi, al secolo Carlo Lorenzini, avrebbe creato Pinocchio se i bambini in difficoltà non ci fossero già stati, se non avesse avuto dei modelli da descrivere? La scuola pubblica fu istituita con l’unità d’Italia. Le avventure di Pinocchio sono state pubblicate a partire dal 1881. La scuola pubblica aveva circa vent’anni. Se ci documentiamo presso un altro autore famosissimo per le tematiche scolastiche, De Amicis, possiamo constatare come essere maestro sia sempre stato arduo e difficile. Dovremo sbarazzarci di questi testi per cambiare opinione? Pinocchio, con lui Gianburrasca (di Vamba, ossia Luigi Bertelli), e gli alunni di De Amicis non manifestano segnali legati all’affettività, ai disagi sociali, ed altro ancora; ebbene, oggi possiamo dire che sono neurolesi, presentano danni neurobiologici.

Non possiamo dimenticare il personaggio delle barzellette, “Pierino”, il bambino più scombinato per eccellenza. Pierino, con tutti gli sforzi del mondo, non ne fa mai una giusta.

“Il monello” di Charlie Chaplin è un altro clamoroso esempio delle difficoltà umane, pertanto sociali, che un bambino può incontrare nella vita.

“Cani perduti senza collare” è il più famoso libro di Gilbert Cesbron (1913-1979) che affronta il tema dei ragazzi abbandonati, senza genitori, soli, dimenticati dalla società, costretti a vivere senza amore, allo sbando, in istituti di assistenza freddi e ostili.

Vittorio De Sica è stato regista di un film dedicato all’infanzia: “I bambini ci guardano”. Il titolo è significativo perché sottolinea il ruolo che gli adulti, travolti dai loro problemi, continuano ad avere nella crescita ed apprendimento (imparare a vivere) di un bambino.

Sarebbe interessante chiedere agli specialisti che differenza esiste fra danni neurobiologici e danni cerebrali (cerebrolesione).

Il prof. Thomas Szasz, psichiatra – accademico di fama mondiale, in un’intervista che si trova su YouTube, sostiene che nessuno è in grado di dimostrare che i disturbi di comportamento e apprendimento sono malattie.

Note

[1“Leggere, scrivere, far di conto”” Giulia Cremaschi Trovesi, Armandoeditore, Roma 2007

[2Programmi televisivi hanno già documentato che negli U.S.A. i bambini in cura con psicofarmaci sono undici milioni. Dopo qualche anno, con l’arrivo della pubertà, si segnalano suicidi, depressioni o esplosioni di aggressività. «Nelle scuole italiane, sono stati recentemente avviati programmi di screening di massa per individuare i bambini sofferenti di problemi di carattere psicologico. Se tuo figlio perde le cose, è disattento a scuola, interrompe spesso gli insegnanti od è aggressivo coi compagni di classe, non è detto che sia malato. Prima di sottoporlo ad una cura dagli esiti incerti e dagli effetti collaterali potenzialmente distruttivi, raccogli informazioni complete sul nostro portale, oppure contatta il nostro Comitato per ricevere a casa una pubblicazione gratuita. Spesso un bambino ha solo necessità di essere ascoltato con attenzione. Non etichettare tuo figlio. Ascoltalo!» (Internet http://www.giulemanidaibambini.org/)

DSA – PROVIAMO CON LA MUSICA? PARTE SECONDA

Autore: Cremaschi Trovesi Giulia

Prima pagina del “Giornale per bambini” con il terzo capitolo de “Le avventure di Pinocchio” (14 luglio 1881)

PARTE SECONDA: L’INDIVIDUALITÀ DI OGNI PERSONA

3. La didattica individualizzata e personalizzata. Strumenti compensativi e misure dispensative.

La Legge 170/2010 dispone che le istituzioni scolastiche garantiscano «l’uso di una didattica individualizzata e personalizzata, con forme efficaci e flessibili di lavoro scolastico che tengano conto anche di caratteristiche peculiari del soggetto, quali il bilinguismo, adottando una metodologia e una strategia educativa adeguate». 
I termini individualizzata e personalizzata non sono da considerarsi sinonimi. In letteratura, la discussione in merito è molto ampia e articolata. Ai fini di questo documento, è possibile individuare alcune definizioni che, senza essere definitive, possono consentire di ragionare con un vocabolario comune.

“Individualizzato” è l’intervento calibrato sul singolo, anziché sull’intera classe o sul piccolo gruppo, che diviene “personalizzato” quando è rivolto ad un particolare discente.

La didattica individualizzata consiste nelle attività di recupero individuale che può svolgere l’alunno per potenziare determinate abilità o per acquisire specifiche competenze, anche nell’ambito delle strategie compensative e del metodo di studio; tali attività individualizzate possono essere realizzate nelle fasi di lavoro individuale in classe o in momenti ad esse dedicati, secondo tutte le forme di flessibilità del lavoro scolastico consentite dalla normativa vigente. 
La didattica personalizzata, invece, anche sulla base di quanto indicato nella Legge 53/2003 e nel Decreto legislativo 59/2004, calibra l’offerta didattica, e le modalità relazionali, sulla specificità ed unicità a livello personale dei bisogni educativi che caratterizzano gli alunni della classe, considerando le differenze individuali soprattutto sotto il profilo qualitativo; si può favorire, così, l’accrescimento dei punti di forza di ciascun alunno, lo sviluppo consapevole delle sue “preferenze” e del suo talento. Nel rispetto degli obiettivi generali e specifici di apprendimento, la didattica personalizzata si sostanzia attraverso l’impiego di una varietà di metodologie e strategie didattiche, tali da promuovere le potenzialità e il successo formativo in ogni alunno: l’uso dei mediatori didattici (schemi, mappe concettuali, etc.), l’attenzione agli stili di apprendimento, la calibrazione degli interventi sulla base dei livelli raggiunti, nell’ottica di promuovere un apprendimento significativo.

Fra i più noti indichiamo:
– la sintesi vocale, che trasforma un compito di lettura in un compito di ascolto;
– il registratore, che consente all’alunno o allo studente di non scrivere gli appunti della lezione;
– i programmi di video scrittura con correttore ortografico, che permettono la produzione di testi sufficientemente corretti senza l’affaticamento della rilettura e della contestuale correzione degli errori;
– la calcolatrice, che facilita le operazioni di calcolo;
– altri strumenti tecnologicamente meno evoluti quali tabelle, formulari, mappe concettuali, etc.

(“Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Dipartimento per l’Istruzione Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione” – “Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento”)

Le parole scritte dagli specialisti del MIUR dicono a chiare lettere che i processi di apprendimento sono personali, soggettivi. Non ci sono e non possono esserci due bambini uguali. Non ci possono essere due bambini che imparano allo stesso modo, con gli stessi tempi di applicazione. 
Occupandoci di bambini piccoli possiamo constatare che l’apprendimento del linguaggio verbale è soggettivo. Ogni bambino impara a parlare a modo suo, con il suo ritmo, rispondendo all’ambiente che lo circonda secondo le sue capacità. Perché occuparci dell’apprendimento del linguaggio verbale? Perché ogni studio, lavoro, attività, rapporto sociale, si realizza utilizzando il linguaggio verbale. Si pongono interrogativi quali:
– quando un bambino incomincia a parlare?
– quali sono gli elementi che influenzano l’apprendimento del linguaggio verbale in un bambino?

“La musica guida verso ogni cambiamento, 
per questo è all’inizio dell’ordine e della 
possibilità di ogni cambiamento”” 
(Aristide Quintiliano, dal trattato “De Musica” Grecia, 200 a. C.)

Le risposte sono complesse. Un dato comune per tutti i bambini, senza differenze di razze e culture, consiste nel fatto che l’apprendimento del linguaggio verbale inizia ancor prima della nascita. Il grembo materno è la prima orchestra che non smette di pulsare, ritmare, suonare per tutto il periodo della gestazione. La percezione di questo mondo musicale è affidata al corpo, al feto che, di ora in ora, modifica le sue dimensioni. Il feto vive dentro alle onde liquido – sonore, percepisce con tutto se stesso, convibra con il vibrare del corpo materno. Ciascuno di noi è corpo. Nella vita fetale il corpo è corpo vibrante. Il feto vibra delle onde sonore, delle emozioni della madre. Nella vita di tutti i giorni noi tutti siamo corpo vibrante. La cultura ci ha abituati a credere che riceviamo le onde sonore soltanto attraverso l’udito. L’apparato uditivo è specializzato nel distinguere le frequenze acute, ossia le armoniche che determinano i timbri dei suoni. Il corpo è il ricettore, il grande orecchio che percepisce convibrando con l’ambiente in un’ininterrotta risonanza con il mondo. Anche se non siamo consapevoli di questo convibrare, siamo sempre coinvolti.

La memoria fatta di ritmi, suoni, versi, rumori, voci etc. ha avuto inizio ancor prima di nascere. La memoria sarà uno degli elementi di fondamentale importanza nell’apprendimento, per tutta la vita. Il neonato, crescendo, accumula esperienze, percezioni, attraverso le emozioni. Possono essere esperienze, emozioni, percezioni che favoriscono o non favoriscono gli apprendimenti.
– Il farsi della parola dipende dal respiro.
– La respirazione investe il corpo. Il corpo, per respirare, deve muoversi.
– Il feto ha imparato a muoversi perché vive in un corpo in costante movimento.
– Ogni movimento ha un prima e un dopo.
– Ogni movimento è ritmo: si realizza nel prima e nel dopo, mentre il tempo passa.
– L’ordine nella successione ritmica è la numerazione.
– L’ordine negli accenti, nella melodia delle parole è canto.

Ritmi e suoni sono il fondamento della nostra vita. Ritmi e suoni sono all’origine del movimento, del numero, della parola. Per il bambino in età della scuola materna e del primo ciclo della scuola primaria, movimento, numero, parola sono una cosa sola. Gli apprendimenti scolastici condurranno gli scolari a cogliere le differenze fra le discipline. È un fatto innegabile che ogni disciplina è detta, descritta con le parole. Parlare. Leggere, scrivere, far di conto sono apprendimenti indispensabili.
In una costruzione noi ammiriamo tutto ciò che possiamo vedere. Le fondamenta sono invisibili; sono sotto a tutto ciò che è visibile. Così accade per noi. Tutto ciò che sarà osservabile a scuola si è strutturato negli anni precedenti. Gli apprendimenti scolastici sono le costruzioni che sorgono sulle fondamenta generatesi negli anni precedenti. Le difficoltà che emergono a scuola dimostrano che gli apprendimenti del bambino appoggiano su fondamenta poco solide. Questi sono i motivi per i quali le attività scolastiche del leggere, scrivere, far di conto, si innestano con il modo di sperimentare e imparare che il bambino ha sperimentato quando era più piccolo. Da secoli stiamo dimenticando che l’essere umano ha imparato a parlare, parlando. Le nostre parole portano nelle loro strutture i suoni delle lingue morte. L’uomo ha conquistato i segni dell’alfabeto disegnando. Infatti i nostri segni provengono da disegni la cui storia si perde nella notte dei tempi. L’uomo ha imparato a numerare (i nostri segni numerici portano ancora le tracce dell’antica corrispondenza biunivoca) manipolando oggetti e calcoli (sassolini). La parola si realizza attraverso il dialogo fra il bambino e gli adulti che gli sono vicini. La parola è parabola, ponte di collegamento fra due o più persone. Esistono correlazioni fra ontogenesi (crescita di una persona) e filogenesi (crescita dell’umanità). Nella filogenesi gli esseri umani si sono serviti della voce per dare suono alla voce, per dire, per condividere con la voce le esperienze vissute. Così fa il bambino che procede nell’aprirsi al linguaggio verbale attraverso il dialogo, l’ascolto degli adulti.

Il bambino ascoltato impara ad ascoltare, ad ascoltarsi.

Ogni essere umano si evolve secondo le sue capacità, le esperienze, le sollecitazioni affettive ed ambientali. Tutto ha il carattere della soggettività. Ogni essere umano cresce, si evolve, impara sulla base delle esperienze, dell’affettività, dei vissuti che ha accumulato dentro di sé.

Suoni, ritmi, movimento sono le fondamenta sulle quali sorgeranno gli apprendimenti. La storia di ogni bambino comprende i motivi dei comportamenti, del livello di attenzione, dell’impegno che gli sarà richiesto nella vita scolastica. L’attenzione nel bambino cresce con il passare dei mesi. A un anno di età gli interessi dei bambini durano per pochi minuti, a tre anni dovrebbero durare più a lungo e così via. I testi dei pedagogisti sono ricchi di documentazioni. I tempi di attenzione dovrebbero prolungarsi con il passare degli anni. L’attenzione è frutto della pratica dell’attenzione stessa. Si impara a rispettare il turno quando si condivide un’esperienza all’interno di un gruppo. Fino a quando un bambino vive in famiglia, magari è figlio unico, come può imparare il comportamento richiesto nel gruppo? Fino a quando un bambino ha avuto tutto il tempo per essere spettatore davanti al teleschermo o impegnato con una macchinetta elettronica nelle mani, e nessun adulto si è preoccupato di valutare quali contenuti, apprendimenti, fantasie si sono sviluppate in lui, come possiamo chiedergli di applicarsi sulle pagine di un quaderno per tempi che si prolungano di giorno in giorno? L’esposizione prolungata a rumori, apparecchiature elettriche accese etc. è un continuo e costante stimolo al movimento perché le onde sonore sono onde di energia, spinta al movimento. Non dobbiamo stupirci di leggere dati statistici che segnalano il costante aumento di bambini in continuo movimento. Ne consegue che i bambini sono carichi di energia che non trova uno sfogo adeguato. L’apprendimento ne fa le spese.

La scuola primaria, sotto l’aspetto di bambini, ossia in dimensioni ridotte, in realtà è frequentata da persone si sono fatte una visione del mondo coerente con le esperienze vissute. Un bambino di sei anni ha avuto molte occasioni per imparare e farsi un’idea di quello che lo riguarda. Imparare a condividere le attività scolastiche con i compagni richiede di modificare le abitudini, il modo di guardare al mondo, alla vita, di mettersi in discussione. Noi adulti simo disposti a consentire agli alunni di una classe di imparare a convivere, a condividere con gli altri le attività scolastiche? 
Stare con gli altri è un apprendimento che si evolve nel tempo, stando con gli altri. 
Aspettare il proprio turno è un apprendimento. 
Ascoltare quello che dice un compagno è un apprendimento. 
Trarre profitto da quello che fa un compagno alla lavagna è un apprendimento.
Non fare cadere matite, gomme, fogli, quaderni etc. dal banco è un apprendimento. 
Saper gestire lo spazio del banco con quaderni, libri, matite, gomme, penne etc. è un apprendimento.
Saper temperare una matita è un apprendimento.
Saper fare scorrere la punta di una biro sul foglio con una prensione adeguata delle dita e con scioltezza del polso è un apprendimento…

DSA – PROVIAMO CON LA MUSICA? PARTE TERZA

Autore: Cremaschi Trovesi Giulia

Prima pagina del “Giornale per bambini” con il terzo capitolo de “Le avventure di Pinocchio” (14 luglio 1881)

Leggiamo dal testo del MIUR:

“Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Dipartimento per l’Istruzione Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione”
Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento.

3.1 Documentazione dei percorsi didattici

Le attività di recupero individualizzato, le modalità didattiche personalizzate, nonché gli strumenti compensativi e le misure dispensative dovranno essere dalle istituzioni scolastiche esplicitate e formalizzate, al fine di assicurare uno strumento utile alla continuità didattica e alla condivisione con la famiglia delle iniziative intraprese.

A questo riguardo, la scuola predispone, nelle forme ritenute idonee e in tempi che non superino il primo trimestre scolastico, un documento che dovrà contenere almeno le seguenti voci, articolato per le discipline coinvolte dal disturbo:
– dati anagrafici dell’alunno;
– tipologia di disturbo;
– attività didattiche individualizzate;
– attività didattiche personalizzate;
– strumenti compensativi utilizzati;
– misure dispensative adottate;
– forme di verifica e valutazione personalizzate.

4. UNA DIDATTICA PER GLI ALUNNI CON DSA

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un progressivo incremento in ambito clinico degli studi, delle ricerche e delle attività scientifiche sul tema dei DSA. Consultando la bibliografia in argomento, si rileva infatti una quantità preponderante di pubblicazioni nei settori della clinica e delle neuroscienze, rispetto a quelli pedagogico-didattici. In tempi più recenti, anche per le dimensioni che ha assunto il fenomeno nelle nostre scuole, oltre che per l’attenzione determinata dagli interventi legislativi in materia, si è manifestato un sempre maggiore interesse per la messa a punto e l’aggiornamento di metodologie didattiche a favore dei bambini con DSA.

Sulla base di una impostazione tuttora ritenuta valida, la didattica trae orientamento da considerazioni di carattere psicopedagogico. A tale riguardo, può essere utile far riferimento a testi redatti nell’ambito di studi e ricerche che si concentrano sul comportamento manifesto, sulla fenomenologia dei DSA, senza tralasciare di indagare e di interpretare i modi interiori dell’esperienza. In tale ambito, si cerca di indagare il mondo del bambino dislessico secondo la sua prospettiva, non come osservatori esterni. Si porta il lettore attraverso vari esempi a comprendere come il bambino dislessico non riesce a mettersi da un punto di vista unitario, ciò che provoca una corsa ai punti di riferimento, poiché ad ogni movimento verso il mondo sorge spontaneamente un doppio significato. Un esempio è quello del turista che si trova in Inghilterra dove vi è un sistema di guida diverso e dove si fa fatica a guadagnare nuovi punti di riferimento. E vi è l’esempio di un Paese ancora più insolito dove la barriera del linguaggio è raddoppiata da quella dei significati. Immaginiamo di trovarci in un posto con una lingua totalmente diversa o che non riusciamo a ben comprendere: sentiamo sorgere un senso di profondo disagio perché manca “una comunicazione completa, reale, intima”. Ma riusciamo a tranquillizzarci perché il nostro soggiorno avrà termine e, con il rientro a casa, potremo tornare ad esprimerci, a parlare in rapporto allo stesso quadro di riferimento, a trovare uno scambio vero, uno scambio pieno. Pensiamo invece al disagio di questi bambini che non possono tornare a casa, in un mondo dove devono rincorrere punti di riferimento…che rimangono stranieri, soprattutto se noi siamo per loro stranieri, chiudendoci nell’incomprensione.

In tal senso, la Scuola dell’Infanzia svolge un ruolo di assoluta importanza sia a livello preventivo, sia nella promozione e nell’avvio di un corretto e armonioso sviluppo – del miglior sviluppo possibile -del bambino in tutto il percorso scolare, e non solo. …..

Come è noto, la diagnosi di DSA può essere formulata con certezza alla fine della seconda classe della scuola primaria. Dunque, il disturbo di apprendimento è conclamato quando già il bambino ha superato il periodo di insegnamento della letto-scrittura e dei primi elementi del calcolo. Ma è questo il periodo cruciale e più delicato tanto per il dislessico, che per il disgrafico, il disortografico e il discalculico. 
Se, ad esempio, in quella classe si è fatto ricorso a metodologie non adeguate, senza prestare la giusta attenzione alle esigenze formative ed alle ‘fragilità’ di alcuni alunni, avremo non soltanto perduto un’occasione preziosa per far sviluppare le migliori potenzialità di quel bambino, ma forse avremo anche minato seriamente il suo percorso formativo. 
Per questo assume importanza fondamentale che sin dalla scuola dell’Infanzia si possa prestare attenzione a possibili DSA e porre in atto tutti gli interventi conseguenti, ossia – in primis – tutte le strategie didattiche disponibili. Se poi l’osservazione pedagogica o il percorso clinico porteranno a constatare che si è trattato di una mera difficoltà di apprendimento anziché di un disturbo, sarà meglio per tutti. Si deve infatti sottolineare che le metodologie didattiche adatte per i bambini con DSA sono valide per ogni bambino, e non viceversa.

Nei testi ministeriali ritorna frequentemente il termine didattica. A tratti troviamo pedagogia o psicopedagogia. Gli studi sugli aspetti clinici sembrano essere preponderanti rispetto a quelli di natura pedagogico – didattica. Non compare mai il termine relazione adulto/bambino. In che cosa consiste la relazione adulto / bambino, docente /discente in classe? Sono in gioco tre elementi:
– il docente;
– il discente;
– la disciplina di studio. 
Il termine disciplina gioca su due versanti: la disciplina di studio da un lato, il comportamento, ossia il modo di essere disciplinato da parte dello studente, dall’altro lato. Poiché tutti noi adulti siamo stati studenti è possibile porre una domanda: una materia di studio poteva essere più o meno gradita anche per come presentata dal singolo insegnante. Il modo di porsi di un insegnante rendeva più o meno gradevole lo studio. Questo entra nel capitolo della relazione del “re – latio” ossia di ciò che collega. Che cosa è ciò che collega il docente con i discenti? La disciplina che, nel contempo, indica ciò che si studia e “come” ci si accosta allo studio. 
Sono importanti queste osservazioni? Possiamo dare per scontato che la relazione docente / discente non ha nulla a che fare con i problemi di apprendimento, con i problemi di comportamento, a maggior motivo con il fatto che il comportamento può influenzare la qualità dell’apprendimento? 
Perfino le valutazioni dei test sono state messe in discussioni perché colui che fa il test ne influenza l’esito!

Leggendo i testi del Ministero sembrerebbe che il bambino, diventato oggetto di studio attraverso la somministrazioni di test che dovrebbero servire per quantificare le sue effettive difficoltà di apprendimento, possa superarle se viene sottoposto al metodo adatto. Nella prima parte (“Serve ancora la pedagogia?”) di questi scritti si è osservato come non sia possibile dimostrare la natura clinica dei disturbi di apprendimento. I problemi di apprendimento non sono malattie. Così come non è possibile separare gli aspetti della relazione interpersonale, del comportamento, dell’attenzione, dall’apprendimento.

Il Ministero parla di metodologie. L’applicazione di un metodo, di un altro metodo, di un altro ancora, dove conduce? L’alunno sottoposto a prove su prove che cosa sente di sé, quale stima ha o non ha di se stesso? Quanti, quali metodi ci sono per insegnare a leggere, scrivere, far di conto? E’ vero, ci sono tanti metodi. Dove si arriva con i metodi? Parto da un esempio. 
Sembra che il mondo scolastico debba soffrire di dolore, a partire dalla classe seconda della scuola primaria, per l’apprendimento mnemonico delle tabelline. Obiettivo da raggiungere: l’apprendimento mnemonico delle tabelline. Ecco un esempio di metodo: applicare a canti conosciuti, parole differenti. L’esempio riportato è sulla melodia di “Fra Martino”:

– “Due e quattro,
il gallo è matto,
sei, otto,
è molto ghiotto,
dieci e poi dodici,
mangia le sue forbici,
quattordici e sedici,
vengono i medici,
diciotto e venti, 
con gli assistenti ”.

E’ perfino ovvio aggiungere che, a fianco di queste parole, ci sono i disegni del gallo matto che si infila le forbici in gola. 
Quali contenuti educativi ci sono in questo metodo?
Su quali aspetti della sensibilità infantile fanno leva queste parole? 
Quali aspetti della difficoltà nell’imparare vengono affrontati?
Nell’intento di rispondere alle domande poste, va sottolineato che il canto, perché voce intonata, crea emozioni e cattura l’attenzione dei bambini. Si utilizza il fascino del canto per conseguire un obiettivo che non ha nulla a che fare con la musica. Si costruisce un metodo ignorando il mondo delle emozioni. Il metodo consiste nel fare imparare a memoria. Per mettere in moto la memoria si ricorre al canto che genera emozioni. 
Quali emozioni sorgeranno in un bambino che immagina il gallo che si infila le forbici in gola?
Quale apprendimento si realizza nel bambino che ha imparato a memoria la numerazione per due, per tre etc.? 
Il bambino è intenzionato ad imparare la sequenza delle numerazioni? 
Il bambino sa che attraverso il canto deve memorizzare le sequenze dei numeri?
Il concetto di moltiplicazione dove è andato a finire?

Si pone un interrogativo che dovrebbe precedere gli altri: quale pensiero teorico sta alla base del ricorrere alle emozioni generate dal canto per memorizzare sequenze di numeri? L’apprendimento mnemonico della numerazione per due, tre etc. non è ciò che la tavola pitagorica insegna. Pitagora attraverso la pratica dei numeri arriva ai concetti.

Teorico è una parola di origine greca che significava “ciò che si riferisce ai procedimenti”. Teoria, nel senso originario, indicava il guardare, l’osservare. La filosofia teoretica si occupa dei problemi filosofici più generali, con speciale attenzione alle questioni riguardanti il fondamento stesso della conoscenza e la struttura fondamentale della realtà (da Wikipedia). Per Aristotele “La filosofia teoretica è allo stesso tempo etica”. “…..è necessario fidarsi più dell’osservazione dei fatti che dei ragionamenti, e dei ragionamenti solo nella misura in cui corrispondono ai fatti osservati”.

Gli insegnanti sanno di applicare un metodo fondato sua teoria piuttosto che un’altra? Sono in grado di accorgersi che una canzoncina è il pretesto che deve condurre verso un obiettivo che col canto non ha nulla a che fare?

“Fra Martino”

Fra Martino campanaro è un canone a quattro voci. Ebbene, la proposta di entrare nella logica delle composizioni musicali è inaccettabile perché Fra Martino (come mi sono sentita dire spessissime volte) è un canto da scuola materna. Faccio appello alla storia della musica. Quando, in quale periodo storico sorge la parola contrappunto? Dobbiamo andare in un arco di tempo che comprende il tardo medioevo ed il rinascimento, quando la notazione musicale fa passi significativi verso una chiarezza dei segni che indichino i rapporti di durata fra i suoni. Fra Martino è un contrappunto (nota contro nota) doppio, ossia la prima parte della melodia si sovrappone con la seconda, la terza, la quarta parte. Le regole del contrappunto sono fisse, non si possono cambiare. Il canone è la forma musicale dove una sola nota non può essere cambiata. Canone nasce come termine musicale utilizzato in altre circostanze. Una melodia, si sovrappone a se stessa due, tre quattro e più volte ancora, innestandosi in un punto, uno ed uno solo, come precisa la matematica.

Questo mondo di rapporti e regole musicali non solo è sconosciuto ma viene perfino distorto. Chi distorce l’utilizzo della melodia conosce il contrappunto doppio, sa che cosa sta facendo? Quello che conta è usare la melodia di Fra Martino per accattivare l’attenzione dei bambini onde ottenere la memorizzazione di una sequenza di numeri.

Proviamo a dedicare attenzione a termini prettamente musicali di uso comune: accordo, ritmo (aritmetica), canone, armonia. 
Accordo deriva da corda, ossia cor –cordis, in italiano cuore. Le nuove conoscenze delle neuro scienze ci insegnano che, nel nostro cuore, ci sono almeno quarantamila neuroni. Allora è vero, come si pensava nel passato, che il cuore è il luogo dove si avvertono gli affetti, il dolore, i sentimenti! Non stupisce che le corde degli strumenti musicali siano collegate al cuore. Per accordo si intende la sovrapposizione di suoni in relazione fra loro. La pratica e lo studio di queste sovrapposizioni e delle relazioni che ne derivano si chiama armonia, ossia giusta proporzione fra le parti. Le distanze fra i suoni, in senso melodico, riguarda gli intervalli e sono valutate in termini numerici: intervallo di seconda maggiore o minore, terza maggiore o minore, quarta giusta, eccedente o diminuita etc. Le distanze fra i suoni nell’armonia sono valutate in termini numerici. Si utilizzano i numeri ordinali per il riferimento ai gradi della scala e quelli cardinali per l’accordo. Anche i valori ritmici sono valutati in rapporti frazionari. Fra Martino è, al contempo, polifonia (sovrapposizione di parti come nell’antico contrappunto) e armonia. Il ritmo è all’origine di tutto, della stessa aritmetica, dove il prefisso greco “ari” rinforza ancor di più il ritmo, ossia la successione nel tempo. Alla fine dei conti è arduo separare la matematica dalla musica, dal pensiero, dalla parola.

Alla luce di questi chiarimenti ha senso parlare di fondamenti di pensiero che reggono una teoria. Questi fondamenti possono anche essere chiamati epistemologia.

Dal testo del Ministero: “Fin dall’inizio della scuola primaria, qualora il bambino non abbia ancora sviluppato i prerequisiti specifici, sarà opportuno soffermarsi su questi, in analogia alla scuola dell’infanzia, per poi sviluppare in modo adeguato la comprensione della connessione tra i simboli scritti del numero e la corrispondenza alle relative quantità. 
Particolare attenzione sarà posta da un punto di vista didattico alle abilità di conteggio (non solo uno a uno, come nella scuola dell’infanzia, ma anche uno a due, due a due…) anello di congiunzione tra processi dei numeri e del calcolo, che dovranno essere esercitate in diverse condizioni, scolastiche e ludiche (ad esempio, giochi con le carte, con i dadi…). 
Fin dall’inizio della scuola primaria è necessario avviare al conteggio e al calcolo a mente, processi necessari all’evoluzione dell’intelligenza numerica. 
Più dettagliatamente, la ricerca scientifica ha evidenziato che nella scuola primaria le strategie di potenziamento dell’intelligenza numerica devono riguardare:
– processi di conteggio;
– processi lessicali;
– processi semantici;
– processi sintattici;
– calcolo a mente; 
– calcolo scritto.

Il conteggio (counting), cioè la capacità di rispondere alla domanda “quanti sono?” è fondamentale soprattutto nel primo ciclo”.

Il numero sembrerebbe nascere dal numero. Il numero è già nell’ordine ritmico del grembo materno, la prima orchestra. L’ordine della numerazione, ossia la scansione di un passo dopo l’altro (concetto di misura dello spazio), è il ritmo che scandisce ogni attimo di vita a partire dal concepimento. Perché non introdurre una pratica musicale che tenga in conto il bagaglio di esperienze che un bambino porta in sé?

Il testo ministeriale dice ancora: “Si deve infatti sottolineare che le metodologie didattiche adatte per i bambini con DSA sono valide per ogni bambino, e non viceversa”. Ne consegue che le metodologie adatte per ogni bambino non sono valide per i bambini con DSA. Proviamo a mettere la frase in un altro modo: “Ciò che non va bene per i bambini con DSA non va bene neanche per gli altri!”

La canzoncina del gallo matto è adatta per ogni bambino? Di quale bambino si sta parlando?
– I bambini che imparano senza difficoltà trarrebbero profitto da questa canzoncina?
– Probabilmente inorridiscono o ridono al pensiero delle forbici nella gola del gallo.

Alla fine dei conti l’utilizzo di canzoncine, disegni, colori, materiali provenienti dalle materie comunemente dette “non verbali”, sono espedienti utilizzati per raggiungere un risultato che, altrimenti, sembra irraggiungibile. Il risultato vuole che il bambino memorizzi le tabelline, riesca a leggere comprendendo il testo, scriva senza errori. Questo modo di procedere non tiene in conto il percorso.

Percorso / risultato

Il percorso della memoria è iniziato in ciascuno di noi a partire dalle esperienze ritmico – sonoro – musicali vissute nella prima orchestra. In ogni gesto, movimento, azione c’è un prima ed un dopo, un ritmo. E’ del bambino compiere lo stesso gesto più e più volte, per es. nel gioco del riempire e vuotare. Perché non tenere in conto questi percorsi che, fra l’altro, si svolgono nell’età della scuola dell’infanzia? 
Ascoltare il bambino vuol dire accogliere il suo modo di essere e pensare per condurlo verso percorsi che non conosce ancora ma che fanno parte del bagaglio umano. Ontogenesi e filogenesi si relazionano fra loro. Piuttosto che aggirare l’ostacolo servendosi di una canzoncina conviene proporre i numeri seguendo criteri epistemologici. Gli ostacoli che incontrano i bambini fanno parte della storia dell’umanità. L’uomo è giunto a scrivere e leggere attraverso le esperienze. Il bambino ha bisogno della stessa cosa.

M.Merleau-Ponty, dice: ‹‹Tutto l’universo della scienza è costruito sul mondo vissuto e se vogliamo pensare la scienza stessa con rigore, valutarne esattamente il senso e la portata, dobbiamo anzitutto risvegliare questa esperienza del mondo di cui essa è l’espressione seconda ››.
‹‹Non si tratta di ‹‹informare››, di travasare nello spirito di coloro che ascoltano un certo contenuto teorico, ma piuttosto di ‹‹formare››, e si tratta anche di sviluppare una ricerca in comune: questa è la vita teoretica ››
 (Aristotele).

neuroscienze.net, articoli di Paola Beltrami

Nella rivista online Neuroscienze.net Paola Beltrami descrive in tre articoli la Musicoterapia Umanistica, delineandone principi e modello di riferimento, contenuti, obiettivi e benefici.

Nel primo articolo si dà spazio alla legislazione che regola la professione del musicoterapeuta (dalla legge 4/13 al Norma UNI 11592 e alla successiva Certificazione).

Nel secondo articolo viene esposto il modello teorico elaborato dalla prof.ssa Giulia Cremaschi nella sua lunga esperienza sul campo.

Nel terzo articolo Paola riporta i benefici della musicoterapia umanistica a vari livelli: relazionale, linguistico, psicomotorio, emotivo, cognitivo, ecc. La première chose qu’il faut savoir à propos du Kamagra 100 mg , c’est que sa composition est sensiblement proche de celle du Viagra… À une différence près : le dosage.

Buona lettura!

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DSA – PROVIAMO CON LA MUSICA? PARTE QUARTA

Autore: Cremaschi Trovesi Giulia

Prima pagina del “Giornale per bambini” con il terzo capitolo de “Le avventure di Pinocchio” (14 luglio 1881)

L’antropologo Steven Mithen, nel suo libro intitolato “Il canto degli antenati”, pag. 180 (Codice edizioni, Torino 2007), scrive: Colwyn Trevarthen, professore emerito di psicologia alla Edinburgh University, sostiene che il fatto di cogliere la natura ritmica e armonica del movimento del corpo è fondamentale per comprendere le origini della musica umana. Una volta definì la musica come niente più che “gestualità udibile” e spiegò che: “Se guardiamo le persone mentre si occupano delle loro faccende quotidiane, mentre lavorano da sole, mentre si mescolano e chiacchierano nella folla, o mentre trattano e collaborano in un’attività collettiva, notiamo che, per quanto il corpo umano sia costruito per camminare su due gambe al suono di un tamburo interno, allo stesso tempo fa complicati giochi di destrezza con fianchi, spalle e testa come fossero una torre di parti mobili indipendenti al di sopra dei piedi in marcia. Mentre camminiamo, siamo liberi di voltarci, di lanciare occhiate a destra e a sinistra, di salutare stendendo e agitando le braccia, di compiere elaborati movimenti con le mani, di parlare, il tutto in frasi coordinate dal ritmo fluente. Tale movimento ha una molteplicità di impulsi semi-indipendenti, una potenzialità per la coordinazione multiritmica che è sicuramente più ricca di quella posseduta da qualsiasi altra specie e che si presta a un uso intelligente di ripetizione e sincope.”

4.1 Scuola dell’infanzia 
È importante identificare precocemente le possibili difficoltà di apprendimento e riconoscere i segnali di rischio già nella scuola dell’infanzia. 
Il bambino che confonde suoni, non completa le frasi, utilizza parole non adeguate al contesto o le sostituisce, omette suoni o parti di parole, sostituisce suoni, lettere ( p/b…) e ha un’espressione linguistica inadeguata, va supportato con attività personalizzate all’interno del gruppo. 
Il bambino che mostra, a cinque anni, queste difficoltà, può essere goffo, avere poca abilità nella manualità fine, a riconoscere la destra e la sinistra o avere difficoltà in compiti di memoria a breve termine, ad imparare filastrocche, a giocare con le parole.

Confonde i suoni… omette suoni… sostituisce suoni… È corretto il termine suono all’interno del linguaggio parlato? Nella cultura greca, al tempo di Platone, il termine ritmo era inteso in questo modo: suoni o sillabe in ordine matematico. L’apprendimento della lingua parlata, secondo il pensiero greco, riguarda suoni matematicamente ordinati. E’ l’ordine del ritmo, elemento fondante della nostra vita. Che cosa si dice, che cosa si intende con suono? La risposta è complessa perché il suono è un fenomeno complesso.

Il bambino che presenta inadeguatezze nel linguaggio può essere goffo… dicono le parole del testo ministeriale. Goffo è un aggettivo. In che cosa consiste la goffaggine? Nella scarsa manualità …. Si ripresenta la relazione mani / bocca. Ad una scarsa abilità nella manipolazione corrisponde un linguaggio parlato inadeguato ed un comportamento goffo. Sarà l’intervento dell’insegnante di lingua italiana o di un rieducatore che pone rimedio alla goffaggine? 
Corpo, mani bocca chiamano in causa la persona in quanto corpo, la musica con il movimento, la coordinazione, l’utilizzo di strumenti musicali e la voce. E’ chiamato in causa l’interagire musicale docente / discente dove il docente ascolta, accoglie, valorizza la goffaggine del discente. I movimenti goffi sono movimenti che si realizzano in un prima ed un dopo. Un musicista dovrebbe essere in grado di scovare il ritmo dei movimenti goffi e ricavarne una musica. In pedagogia musicale APMM e musicoterapia umanistica al professionista viene richiesta la capacità di improvvisare musica sul gesto della persona, sia alunno o persona con disabilità. A questa stregua la musica è nel gesto come il suono è nella voce, il ritmo è dovunque.

Quali rapporti ci sono fra la goffaggine ed il suono che si forma nella bocca, che esce verso l’esterno e si chiama voce? Come, dove, perché si forma la voce? Ci siamo mai poste queste domande? Non è scontato che tutte le persone siano in grado di parlare e non è scontato che tutti, in ogni momento della vita, siamo in grado di emettere la voce. Secondo il modo comune di pensare la voce è qualcosa di scontato, Eppure tutti, prima o poi, ci troviamo o ci siamo trovati in situazioni nelle quali non era possibile parlare, non si trovano le parole adatte, si avverte tensione, imbarazzo, si prova il desiderio di essere altrove etc. La voce parla della persona, di come sta, come si emoziona, come si rapporta con gli altri e nell’ambiente. Un bambino che ha un’espressione linguistica inadeguata, in realtà, attraverso la qualità della voce, le sue parole, le frasi brevi o interrotte, manifesta molto, molto di più, parla di se stesso, dei suoi vissuti, di quello che riesce, non riesce, non vuole, non può o crede di non poter fare.

Di che cosa è formata la voce? Se ci fermiamo a pensare possiamo stupirci per la semplicità della risposta: la voce è formata da onde sonore, che generano perturbazioni nell’aria. L’aria inspirata, premuta verso l’esterno, attraverso l’espirazione, si trasforma in voce. Sappiamo che i movimenti respiratori sono involontari, infatti respiriamo anche durante il sonno. Si potrebbe dedurre che la respirazione ha una sua autonomia. Non è così. Ci sono eventi in grado di modificare la respirazione: le emozioni. Le modificazioni nel tono corporeo riguardano la postura, ossia come poniamo noi stessi nello spazio. La postura corretta è la posizione migliore che noi dovremmo assumere per realizzare gesti, movimenti, spostamenti nello spazio, ossia essere in relazione costante con la forza di gravità per agire con il minor dispendio di energie. Il nostro vivere nello spazio-tempo, ossia porci in relazione con il mondo (postura) investe fattori neurofisiologici, biomeccanici, emotivi, psicologici, relazionali. Il filosofo E. Husserl spiega lo schema corporeo come la capacità di assumere posizioni idonee in ogni momento della vita, in relazione allo spazio, agli oggetti. Un bambino che fa cadere gli oggetti dal banco, urta contro i banchi dei compagni spostandosi nell’aula, giocherella con la coulisse della felpa, rosicchia il colletto della camicia e altro ancora, va condotto a gestire il suo spazio in relazione a quello occupato dagli oggetti, dagli altri. Ci vuole tempo perché superi i comportamenti abituali, i movimenti ormai prassici dei quali non si accorge neppure, perché impari altri movimenti. Il termine utilizzato dal testo ministeriale è “goffo”. Dietro a questa goffaggine si annidano aspetti riguardanti la postura, la gestione dello spazio, la qualità della respirazione, la coordinazione, l’attenzione. Una corretta respirazione porta ossigeno alla persona mantenendo viva l’attenzione. Questi brevi accenni chiariscono come sia importante guardare al bambino come persona (per sonare, suonare attraverso se stesso, convibrare con l’ambiente). Il corpo, attraverso le posture, gli sguardi, i movimenti delle mani, il tipo di appoggio dei piedi, dice dell’attenzione di un bambino. Come si ottiene una buona respirazione, una postura equilibrata, in un bambino troppo agitato o troppo tranquillo?

IL CORPO IL GRANDE ESCLUSO!

Inspirare vuol dire riempire i polmoni di aria. I polmoni sono formati da alveoli mossi dalla complessità della muscolatura corporea.

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La laringe nel momento della respirazione (aperta) e della fonazione (stretta)

Il diaframma (v. immagine) è un poderoso muscolo posto nella parte mediana del corpo che si muove dall’alto verso il basso, allargandosi, per far sì che i polmoni si riempiano di aria e dal basso verso l’alto, restringendosi, per premere l’aria (il fiato) che, passando attraverso la laringe, diventa voce. Tutto ciò che caratterizza la voce di ciascuno di noi, ossia il timbro vocale, è un mistero. La laringe, da sola, produce suoni poco percepibili. La voce si forma risuonando nelle cavità corporee. La voce si forma nel corpo, vibra nel corpo, lascia trapelare le emozioni, le tensioni che sono dentro al corpo. La voce in quanto tale, indipendentemente dalle parole che sono pronunciate, è il non verbale che dovremmo imparare ad ascoltare, a rispettare.

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Il diaframma separa gli organi interni (stomaco, intestino, fegato etc. ) dal cuore e dai polmoni.

Posture inadeguate generano al diaframma posizioni sbilanciate. La respirazione, la voce e l’attenzione ne risentono immediatamente. 
La voce fa vibrare le cavità risonanti del nostro corpo. I suoni gravi della voce son avvertibili appoggiando le mani sul petto, sul torace, sulle spalle, sulla schiena. La voce maschile è ben avvertibile al contatto diretto con le mani perché è più grave di quella femminile. A secondo dei nostri stati d’animo la voce fa vibrare le cavità risonanti in modi differenti. Le tensioni emotive modificano il tono della respirazione. 
La voce è corpo; si forma attraverso la tensione del corpo. Basta uno squilibrio che la voce si modifica. Prima ancora di prendere in esame l’espressione verbale di un bambino è bene osservare il suo modo di stare, di porsi, di appoggiare i piedi, di reggersi, di gestire se stesso. Il corpo parla delle emozioni, degli stati d’animo, dei vissuti, delle incertezze, dei desideri, dell’autostima (o disistima?) etc. La voce dipende dal respiro che investe la corporeità nella completezza di corpo vibrante. Il termine psicomotorio dovrebbe far suonare un campanello d’allarme. Perché psico – motorio, non più soltanto motorio? Se il problema fosse soltanto motorio basterebbe far eseguire ai bambini esercizi fisici per migliorare le posture, pertanto la qualità della respirazione, l’emissione della voce, l’espressione verbale. Non è così. Una postura piuttosto che un’altra è frutto di esperienze, abitudini, modo di porsi nella relazione con gli altri, con le cose, con gli interessi.

La risposta richiede passaggi di qualità che non tutti gli adulti sono disposti a compiere. La cultura da molti secoli ci ha fatto pensare e credere che sia possibile separare il corpo dalla mente. Gli studi sulla psicomotricità (Jeanne Le Boulche, La Pierre, B. Aucouturier, G.B. Soubiran, il filosofo Maurice Merleau-Ponty, per citare i più noti) conducono verso un altro modo di intendere l’essere umano. Ogni movimento nasce da una spinta della psiche. Il problema consiste nel riuscire a comprendere che cosa si intende con psiche che, nella sua origine, indicava anima. Ogni movimento scaturisce da qualcosa che reagisce alle emozioni. Ogni movimento esterno nasce da un e-moveo interiore, dalle emozioni. Il tipo di movimento, il respiro, la qualità della voce, l’espressione verbale sono le manifestazioni che fanno vedere all’esterno quello che vibra all’interno.

L’ambiente di vita con i suoi rumori, le voci, le relazioni interpersonali favoriscono o non favoriscono l’ascolto. Un bambino che non vuole ascoltare si rannicchia in se stesso, guarda altrove, sembra non ascoltare né vedere o, nel caso contrario, di dimena, si alza, va in giro, grida o altro ancora. I diversi comportamenti creano altri comportamenti, quelli dell’insegnante. Nel caso in cui il bambino sta per i fatti suoi, succede ben poco. Nel caso in cui si agita, corre in giro, grida o altro ancora, disturba le lezioni, mette l’insegnante nella condizione di non saper più che cosa deve, può fare. Osserviamo i bambini con occhio attento e vedremo che nei momenti di difficoltà trattengono il fiato, vanno in apnea (lo facciamo anche noi adulti) o gridano. Come può formarsi la voce e l’espressione verbale a queste condizioni? E’ un fatto innegabile che tutti, in momenti particolarmente delicati della vita, quali esami, esiti o altro, ci siamo accorti di trattenere il fiato, di far fatica a parlare.

LA MENTE, SOLO LA MENTE, SEPARATA DAL CORPO, DALLE EMOZIONI?

Dal testo ministeriale: “In una scuola che vive nell’ottica dell’inclusione, il lavoro in sezione si svolge in un clima sereno, caldo ed accogliente, con modalità differenziate. Si dovrà privilegiare l’uso di metodologie di carattere operativo su quelle di carattere trasmissivo, dare importanza all’attività psicomotoria, stimolare l’espressione attraverso tutti i linguaggi e favorire una vita di relazione caratterizzata da ritualità e convivialità serena. Importante risulterà la narrazione, l’invenzione di storie, il loro completamento, la loro ricostruzione, senza dimenticare la memorizzazione di filastrocche, poesie e conte, nonché i giochi di manipolazione dei suoni all’interno delle parole”.

Il testo riporta belle parole. Leggendo si immagina un gruppo classe di scolari sereni, sorridenti guidati da un’insegnate altrettanto sorridente che canta o legge testi gradevoli. Certo che le cose non vanno così. La scuola separa i linguaggi in verbale da quelli non verbali. Questa separazione è fatale. Come farà il suono ad essere all’origine della parola, il ritmo ad essere la struttura della parola, gli accenti (intensità del suono) a caratterizzare le parole se il suono rientra nel non verbale?

Attraverso gli esercizi di grafica, si lavora sulla motricità fine, sulla funzionalità della mano e, contemporaneamente, sull’organizzazione mentale, ovvero sul nesso tra l’assunzione immaginativa di un dato ed il suo tradursi in azione. Il bambino non “copia” le forme, ma le elabora interiormente. Anche la psicomotrità rientra nei linguaggi non verbali.

Il linguaggio è il miglior predittore delle difficoltà di lettura, per questo è bene proporre ai bambini esercizi linguistici -ovvero “operazioni meta fonologiche” -sotto forma di giochi. 
Le operazioni metafonologiche richieste per scandire e manipolare le parole a livello sillabico sono accessibili a bambini che non hanno ancora avuto un’istruzione formale ed esplicita del codice scritto. 
L’operazione metafonologica a livello sillabico (scandire per esempio la parola cane in ca-ne) consente una fruibilità del linguaggio immediata, in quanto la sillaba ha un legame naturale con la produzione verbale essendo coincidente con la realtà dei singoli atti articolatori (le due sillabe della parola ca-ne corrispondono ad altrettanti atti articolatori nell’espressione verbale ed è quindi molto facilmente identificabile).

“Metafonologia è una particolare conoscenza metalinguistica che consiste nella “capacità di percepire e riconoscere per via uditiva i fonemi che compongono le parole del linguaggio parlato, operando con gli stessi adeguate trasformazioni (Bortolini 1985). Fonema, unità linguistica minima priva di senso proprio”. www.orvietosettemartiri.it
“La competenza metafonologica consiste nel saper compiere un’analisi del linguaggio parlato e manipolarne le unità di cui è costituito. Nel corso del suo sviluppo linguistico, infatti, il bambino diviene consapevole che le parole sono fatte di suoni, e che tali suoni possono essere trasformati: questo processo è fondamentale per l’acquisizione del linguaggio scritto”.www.lalogopedista.com

È possibile dare una spiegazione alla rappresentazione astratta del suono leggendo la frase successiva: “La disciplina che individua e studia i fonemi si chiama fonologia (o fonemica).Secondo lo strutturalismo rappresenta l’unità minima di seconda articolazione, la più piccola e senza significato proprio”. (Wikipedia).

Finalmente possiamo chiarirci le idee! Stiamo leggendo delle frasi che si rifanno allo strutturalismo linguistico secondo il quale le parole sono codici arbitrari. Mettiamo le cose a posto:
– il fonema è privo di senso;
– le parole sono codici arbitrari.

Il linguaggio verbale che tutti utilizziamo è vuoto di senso! In questa visione teorica asettica mancano il corpo vibrante ed il mondo. Per la fenomenologia l’uomo è “essere nel mondo”. Il mondo è l’orchestra che ha fatto parlare l’uomo! Togliendo la relazione che cosa resta?
La domanda più grande si pone ora: chi opera secondo questi criteri sa di essere dentro ad una teoria specifica? Questi presupposti teorici sono in crisi da lungo tempo. Basta citare: “L’antropologo Steven Mithen, nel suo libro intitolato “Il canto degli antenati”, pag. 180 (Codice edizioni, Torino 2007), scrive: Colwyn Trevarthen, professore emerito di psicologia alla Edinburgh University, sostiene che il fatto di cogliere la natura ritmica e armonica del movimento del corpo è fondamentale per comprendere le origini della musica umana. Una volta definì la musica come niente più che “gestualità udibile” e spiegò che: “Se guardiamo le persone mentre si occupano delle loro faccende quotidiane, mentre lavorano da sole, mentre si mescolano e chiacchierano nella folla, o mentre trattano e collaborano in un’attività collettiva, notiamo che, per quanto il corpo umano sia costruito per camminare su due gambe al suono di un tamburo interno, allo stesso tempo fa complicati giochi di destrezza con fianchi, spalle e testa come fossero una torre di parti mobili indipendenti al di sopra dei piedi in marcia. Mentre camminiamo, siamo liberi di voltarci, di lanciare occhiate a destra e a sinistra, di salutare stendendo e agitando le braccia, di compiere elaborati movimenti con le mani, di parlare, il tutto in frasi coordinate dal ritmo fluente. Tale movimento ha una molteplicità di impulsi semi-indipendenti, una potenzialità per la coordinazione multiritmica che è sicuramente più ricca di quella posseduta da qualsiasi altra specie e che si presta a un uso intelligente di ripetizione e sincope.”

Il bambino impara a parlare perché è vissuto per nove mesi a contatto con i suoni percepiti attraverso il corpo, così come sostiene Trewarten. Il corpo è il protagonista degli apprendimenti; il corpo è del tutto estraneo a questo modi di analizzare il linguaggio. Perché calare il criterio analitico adulto sul bambino? Per il bambino il cane è un animale che gli piace o del quale può avere paura. Separando la parola cane in ca e in ne il bambino si trova davanti a qualcosa che è privo di senso!

“Ci sono due modi molto generali di conoscere: analizzare e comprendere. L’analisi è di gran lunga il mezzo più potente, idealmente replicabile all’infinito, cioè senza limite definito alla sua capacità di dividere e scomporre. Senza l’esperienza globale del comprendere, però, nessuna analisi sarebbe possibile.
Spesso la potenza e l’efficacia pratica dell’analisi ci rende ciechi e dimentichi del momento globale del comprendere, che nondimeno è all’origine di ogni nostra esperienza e di ogni nostro apprendimento. Finiamo allora per essere indotti a credere che gli elementi emersi nell’analisi siano essi stessi originari, e non il frutto di una nostra operazione scompositiva sul corpo indistinto della primordiale comprensione.
Di questo errore di prospettiva soffre in particolare ciò che chiamiamo linguaggio. A partire dalla mirabile analisi e trascrizione del discorso orale operata dai segni stilizzati dell’alfabeto (una delle più perfette e longeve creazioni dello spirito greco), ci siamo per esempio irriflessivamente convinti che le “lettere” (vocali, consonanti, sillabe) siano i mattoni originari che costituiscono “in sé” il linguaggio. Che le cose non siano così semplici e che propriamente non stiano così basterebbe a dimostrarlo il fatto che nessun bambino ha imparato o imparerebbe a parlare grazie a un apprendimento preventivo, separato e analitico dei “suoni del linguaggio che compongono le parole”: il bambino procede per unità di senso globali (‘mamma’, ‘pappa’), dopo vocalizzi di prova e addestramento, unità che poi connette in globalità più ampie (mamma: pappa!)”. Carlo Sini prefazione dal libro “Dal suono al segno” (G. Cremaschi Trovesi, M. Verdina ed. Junior)

Le parole del filosofo sono chiare. Muoversi secondo il pensiero umanistico richiede agli adulti di lasciare le loro certezze per incominciare ad ascoltare il bambino, il suo modo di apprendere (che è stato il nostro modo di apprendere), il suo diritto di sbagliare, di distrarsi, di non capire (che cosa abbiamo vissuti nell’infanzia quando ci siamo trovati in difficoltà e l’adulto non ci ha capito, non ha saputo aiutarci ma ci ha soltanto giudicati negativamente?). Nella metafogonologia il suono è tenuto in conto in quanto onda vibratoria che investe il corpo vibrante? Ma no! Il fonema, ossia il suono da solo, è il fonema privo di senso! Ebbene questo fonema privo di senso è un timbro sonoro. Che cosa è il timbro sonoro? E’ l’attributo, aspetto o caratteristica del suono che ci consente di riconoscere la fonte sonora. E’ possibile che un bambino non sappia riconoscere una fonte sonora, non diriga lo sguardo verso ciò che ha attirato il suo ascolto? Se priviamo di senso il timbro sonoro allora il bambino non volgerà il capo. perché non ha senso interessarsi a qualcosa che è priva di senso! Si scrive il timbro dei suoni? Certo che si scrive il timbro del suono! E’ il primo attributo del suono che l’umanità ha saputo scrivere nel passare dal suono al segno.

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